Il Bianco & il Rosso - anno V - n. 52 - luglio 1994

{)l.L BIANCO ~ILROSSO 1111 # 8111 Qualealternativa alladestra-centro? H a fatto bene, questa rivista, a porsi, nell'editoriale del n. 51, la domanda: come organizzare l'alternativa al governo di destra-centro? Ha fatto bene, perché questa domanda accompagnerà la lotta politica per ancora molto tempo. Quando si parla di organizzazione, non vi sono formule univoche. A meno che non si concepisca l'organizzazione come, esclusivamente, il risultato di sforzi soggettivi, o meglio la somma di progetti individuali omogeneizzabili. Ma così non è, come sappiamo. L'organizzazione è l'esito tanto delle idee di coloro che la promuovono quanto dei condizionamenti dell'ambiente al cui interno essa dovrà agire. Vediamo separatamente le idee e i condizionamenti. Sulle prime, così come esse sono state esposte nell'editoriale in questione, il mio consenso è totale. In particolare su due punti: innanzitutto, che una democrazia dell'alternanza ha bisogno di partiti politici per realizzarsi e, poi, che tali partiti dovranno avere una natura per così dire «federata». Si tratta di due punti non da poco, specialmente nell'attuale temperie culturale. Nella quale si cerca di fare avanzare l'opinione che la critica alla partitocrazia debba fare tutt'uno con la critica ai partili in quanto tali. Un'opinione diffusapiù di quanto si pensi, e non riducibile unicamente agli osservatori di fede pannelliana. Un'opinione che va combattuta culturalmente con rigore ed equilibrio. Non solo perché nessuna democrazia di grandi dimensioni di Sergio Fabbrini può funzionare senza l'azione di una qualche agenzia di raccordo tra gli elettori e gli eletti. Ma anche perché, tra le agenzie disponibili, quella chiamata «partito» si presenta come la più suscettibile al controllo democratico. Ma qui, naturalmente, occorre intendersi perché grande è la confusione sotto il sole. Il partito è un genere, cui corrispondono specie organizzative diverse. Non è scritto da nessuna parte che il partito è solamente quello indicato con un apparato extra-istituzionale. I partiti rispondono ad incentivi esterni, e non solamente a tradizioni interne. Chi vuole la loro riforma, deve lavorare su entrambi i versanti. Rifiutando l'assurda dicotomia: democrazia dei partiti oppure democrazia dei leader. Quasi che le scienze sociali fossero ancora quelle di un secolo fa. Ostrogorski è un punto di partenza, non di arrivo. Oggi sappiamo, grazie alla ricerca empirico e comparativa, che non vi è alcuna inconciliabilità tra partiti e leader. Piuttusto, il problema, assia più significativo, è quello di stabilire le relazioni di rilevanza tra di essi. Poche cose mi sembrano ideologiche, come l'idea che occorre evolvere in direzione di una democarzia plebiscitaria. Come se le società post-industriali fossero società atomizzate, disorganizzate, individualizzate, nelle quali l'unico legame possibile, di rilievo politico, è quello tra il cittadino qualunque e il «dittatore dell'arena elettorale». Non è così. Le nostre società sono tutto meno che disorganizl zate, anche se la loro organizzazione passa sempre di meno attraverso le linee di partito. Ogni cittadino è inserito in una rete di relazioni organizzative, che vedono intrecciati i gruppi di interesse con le associazioni funzionali, i networks comunitari con i movi29 menti monotematici. Le società poliarchiche non sono il luogo ideale per il plebiscito. Sono il luogo ideale per i leader che sono capaci di mettere in collegamento i vari pezzi del mosaico poliarchico: un compito che, appunto, essi possono svolgere in quanto attori di un'agenzia più grande di essi. Qui risiede, peraltro, la natura necessariamente «federata» del partito post-industriale: e che io preferirei chiamare

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