Il Bianco & il Rosso - anno V - n. 51 - mag.-giu. 1994

za era già stata concretizzata dalla Commissione Bicamerale della scorsa legislatura con proposte di grande valore, tra cui l'assegnazione alle Regioni di tutte le competenze non espressamente assegnate allo Stato, invertendo così il criterio dell'odierno articolo 117 che si è prestato a derive centralistiche inaccettabili, paralizzanti ogni possibilità di Governo e deresponsabilizzante a tutti i livelli. Mi sembra invece totalmente fuori luogo parlare di «federalismo», poiché i casi sono due: o è la stessa cosa con etichetta diversa ed allora non si vede perché non chiamarlo «regionalismo», come in tutti i casi di Stati nazionali che si decentrano, o è una cosa diver0 lJ, BIANCO ~ILROSSO 1,11 ;.tJ i a ;J sa, che lascia intendere un allentamento del vincolo comune, del «foedus» che lega i cittadini del Paese fino ad una possibilità di secessione, ed allora è un concetto pericoloso e da respingere. La Repubblica «riconosce e promuove le autonomie locali», recita l'art. 5 della Costituzione che non toccherei affatto, ma a cui cercherei di dare traduzioni più innovative e coerenti nella riforma della seconda parie della Costituzione. Si dunque allo «Staio delle autonomie», inteso come una rete diffusa e differenziala di precise istanze di governo e di poteri autonomistici effettivi e perciò responsabilizzati (non solo le regioni e gli enti locali ma anche le autonomie - con potestà determinate di auto-normazione e di auto-organizzazione, cioè di governo - delle formazioni sociali, delle università, delle istituzioni scolastiche, dei diversi centri o settori della Pubblica Amministrazione, ecc.). No al «federalismo» e alla «Repubblica federale», che rischia di sostituire il centralismo romano con nuovi e più soffocanti centralismi periferici e che, soprattutto, rischia di mandare in frantumi ogni residuo vincolo di «solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2 Cosi.), riportandoci alla premoderna «società atomistica» di hobbesiana memoria. Attentiai «riformisti»che ci riporterebberoindietro Itri, più competenti di A me, provvederanno ad argomentare la tesi già peraltro enunciala dai più autorevoli costituzionalisti: e cioè che, quanto al metodo della revisione costituzionale, non si può assolutamente derogare all'art. 138della vigente Costituzione; che le maggioranze qualificate ivi previste debbano essere elevate in conseguenza della recente introduzione della legge elettorale a dominanza maggioritaria; che non è lecito procedere a un'organica riforma costituzionale a colpi di maggioranza politica sanzionata da un referendum approvativo che si risolva di Franco Monaco nel prendere o lasciare, infine che si danno principi fondamentali della Costituzione non suscettibili di modifica, salvo procedere a una vera e propria rottura dell'ordine costituzionale e a una riscrittura della carta fondamentale da parte di un'assemblea costituente all'uopo eletta con metodo proporzionale. I suddetti principi fondamentali sono quelli richiamati dal presidente Scalfaro: unità e indivisibilità della repubblica, diritti di libertà, uguaglianza e solidarità sociale, spirito di pace nelle relazioni internazionali. Mi limito perciò a tre rilievi, rispettivamente inerenti alla forma dello Stato (e alla spinta federalista), alla forma di governo (e alle ipotes'i di stampo presi28 denzialista) e, infine, ai doveri di coerenza politica rispetto ai principi fondamentali. Circa la forma dello Staio, si possono fare tre osservazioni. La prima: ci si può chiedere - come fa Paolo Barile - se l'introduzione di un modello federalista in senso proprio non comporli appunto una riscrittura dell'intera Costituzione (a differenza di eventuali nuove forme di governo). La seconda: al momento, non disponiamo di concrete proposte di riforma in senso federale suscettibili di essere esaminate e discusse. Se si esclude la bozza di costituzione scandita in otto articoli stilata da Gianfranco Miglio per il congresso di Assago della Lega nord (ma mai formalmente sposala

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