Il Bianco & il Rosso - anno V - n. 50 - aprile 1994

dio ogni qual volta l'aggettivo cristiano viene usato per «rafforzare» la propria credibilità nell'attuale fase politica. Si fa ricorso allo scudo protettivo del nome «cristiano» per sfruttare quella rendita che la «religione» continua ad avere sul piano civile e politico e nei fatti si concorre a oscurare la drammaticità del problema, quello cioè del linguaggio di fede come linguaggio comprensibile oggi. Da questo punto di vista i «Cristiano-Sociali» hanno svenduto un pezzetto di patrimonio per una manciata di voti in più, il che sconcerta visto che molti tra i più autorevoli loro esponenti sono stati dei «campioni della laicità». Se non fosse ancora chiaro io considero oggi quanto meno doverosa e riparatrice l'autointerdizione dell'uso del nome cristiano come marchio di garanzia di qualunque formazione politica. Certo non è quasi nulla rispetto ali' esigenza profonda di «silenzio» che oggi si imporrebbe nella nostra Chiesa per poter realizzare qualcuno dei pre-requisiti per riguadagnare lo spazio possibile al linguaggio di fede, tuttavia fare il contrario è davvero non cogliere un segno dei tempi. Nel «silenzio», le straordinarie possibilità dei cattolici. Cogliere l'opportunità offerta dal venir meno dell' equivoco dell'unità politica dei cattolici è innanzi tutto un problema di riforma ecclesiale, che come tale impegna tutti i credenti. Va da sé che la maggior parte delle scelte e pratiche pastorali deve essere ripensata proprio perché in radice «viziata» dalla identificazione dei cattolici con i democristiani; ma nella mia prospettiva, è solo tramite questa riforma ecclesiale che può avere senso concreto la domanda del destino dei cattolici in politica. Se ciò non avvenisse - scomparsa la Dc - i cattolici in politica non sarebbero molto diversi da quello che sono stati e sono in virtù non solo della Dc, ma della chiesa cattolica italiana. Due mi sembrano le condizioni della scelta del silenzio (scelta voglio ribadire che dovrebbe imporsi per anche semplicissimi motivi di natura penitenziale). {)!LBIANCO ~ILROSSO 1111 >,-s, i a; 1 La prima condizione recita la scelta ecumenica come stile e metodo di vita non solo e non tanto nei rapporti tra le Chiese, quanto all'interno della Chiesa cattolica. Il metodo ecumenico deve diventare prassi comune dello stare insieme nella comunità ecclesiale, altrimenti si rende impraticabile la stessa possibilità di accogliere il miracolo dell'unità nei valori. Uso volutamente la parola miracolo, perché se non si sa rivivere lo stupore evangelico è sicuramente prevalente la autocostruzione, o, in altri termini, la «presunzione religiosa». La seconda condizione discende dalla ritrovata parresia nella comunità ecclesiale ed è quella dell'assoluta e piena responsabilità individuale del cattolico nell'odierno operare politico. Per dirla con uno slogan, il cattolico in politica dovrebbe essere più maceralo dal dubbio, dall'insecurlas, che pro13 tetto dallo scudo della certezza. Tutto questo non ha nulla a che fare con la volontà di ridurre la fede alla sfera privala; a mio parere è l'unico percorso possibile per produrre capacità di cogliere politicamente il futuro e per elaborare nuove possibilità di pensare. Se ogni cattolico in politica fosse «un cuore pensante ... ». Ho fatto riferimento al silenzio come spazio/tempo indispensabile della Chiesa e di ogni cattolico: l'effetto dovrebbe essere la quotidianità della dimensione mistica di cui uno dei modelli «sorprendenti» compare nella scrittura «privata» di Etty Hillesum, giovane ebrea olandese che affronta la abiezione della vita nel campo di concentramento con la dignità umana che nasce dal voler essere «il cuore pensante di questa baracca» (cfr. «Diario 1941-1943», Adelphi 1985). Si tratta di percorso che pur non avendo nessun elemento intellettuale in comune con l'itinerario di Simone Weil, approda ad una analoga «esigenza/capacità» di nuova cittadinanza. Di una cittadinanza senza barriere e planetaria quale oggi è avvertita da qualsiasi essere umano politicamente consapevole. È quel «nuovo paradigma» cui Ernesto Balducci ha dedicato l'ultima e più matura riflessione (cfr. «La terra del tramonto, saggio sulla transizione», Edizioni Cultura della Pace 1992) ponendo in evidenza l'ineluttabilità del passaggio dall'homo faber all'homo sapiens o, in termini più generali, «la transizione dall'antagonismo della simpatia come unica legge della sopravvivenza». La fine dell'unità politica dei cattolici ridà ad ogni credente la sua piena responsabilità: sarà davvero un bene per la società e per la Chiesa se questo comporterà un crinale in cui c'è sempre meno spazio per «la Grande Muraglia», sotto qualsiasi forma essa si presenti (cfr. A. Waldron, «La Grande Muraglia, dalla storia al mito», Einaudi 1993), e sempre più pratica dell'«apertura» cosi come a chi vuole continua ad insegnarla Aldo Capitlni (chiudo così e rinvio ad un mio intervento, «Per ricordare Aldo Capitini» in: «Servitium». n. 90, 1993).

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