salariali e senza alcun miglioramento delle possibilità di occupazione. A sua volta la proposta del blocco dei salari corrisponde alla vecchia dottrina liberista che «i profitti di oggi si trasformano negli investimenti di domani e nell'occupazione di dopodomani». Come sappiamo però le cose non vanno affatto così. L'esperienza, oltre che la moderna teoria economica, hanno ormai abbondantemente dimostrato che non sempre i profitti si trasformano in investimenti e che ancor meno gli investimenti si trasformano in posti di lavoro. Anzi, non di rado si trasformano nel contrario. Per completare il quadro dei molti «placebo» spacciati per cure efficaci c'è da dire che nemmeno le misure recentemente adottate dal governo (in materia di contratti di formazione lavoro, di «lavoro in affitto» ecc.) avranno il ben che minimo effetto sul livello della disoccupazione, perché producono soltanto una occupazione sostitutiva. In assenza di vere proposte per affrontare concretamente il problema della disoccupazione tutte le speranze sembrano ormai affidate solo agli auspici ed ai pronostici sulla ripresa. È dalla ripresa economica che la maggioranza degli uomini politici si aspettano il miracolo. C'è da dire subito una cosa che in questo «avvento», di solito, viene taciuta. Indipendentemente da quando verrà (ovviamente, speriamo presto) e dalla sua consistenza (che ci auguriamo elevata) la ripresa economica non avrà nessun effetto sullo stock di disoccupazione esistente. Se andrà benissimo non lo aggraverà. Non a caso tutti gli istituti di previsione assicurano che la ripresa ci sarà nel 1994, ma anche che la disoccupazione continuerà a crescere. Sia pure ad un ritmo più contenuto rispetto agli ultimi anni. D'altro canto poiché la disoccupazione ha ormai un carattere strutturale, non può essere certo il miglioramento della congiuntura economica, per quanto consistente, a risolverla. Non si dovrebbe per altro ignorare che il numero dei disoccupati in Italia ed in Europa è in costante aumento da D!LBIANCO ~ILROSSO 1 nu.i#J I a ; 1 oltre vent'anni. Indipendentemente dall'andamento del ciclo economico. L'unica variazione consiste nel fatto che quando la congiuntura è in fase espansiva cresce di meno, quando invece è in fase recessiva aumenta di più. Poiché le cose stanno così e non possono essere modificate da nessun gioco di prestigio verbale, è evidente che il problema può essere affrontato, solo se si ha il coraggio e la forza di mettere in campo inediti e radicali interventi strutturali. In questa prospettiva le direzioni in cui si dovrebbe agire sono fondamentalmente quattro. Le proponiamo schematicamente. 1 - La scuola. Che innanzi tutto significa innalzamento dell'obbligo. L'obiettivo dovrebbe essere l'elevazione a 18 anni entro il 2000. Allo stato delle cose siamo i penultimi in Europa. Seguiti solo dalla Turchia e preceduti anche da Grecia e Portogallo. Che significa inoltre riforma della secondaria superiore il cui ordina39 mento risale al 1923e non ha più alcun rapporto con le straordinarie trasformazioni che hanno attraversato la società italiana. Che significa infine radicale riorganizzazione della formazione professionale. La quale, allo stato delle cose, produce soprattutto una dissipazione di danaro pubblico. Nell'ambito della riorganizzazione le lauree brevi devono diventare un pezzo essenziale della formazione professionale con la costituzione di un secondo canale formativo. 2 - Orari. Che vuol dire riduzione degli orari e diversa ripartizione del lavoro. Non si deve dimenticare infatti che ai fini dell'occupazione quello che conia è il rapporto Ira produttività e produzione. Infatti relativamente poco imporla il tasso di aumento dell'economia se la produttività necessaria per realizzarlo porta a distruggere più posti di lavoro di quanti l'espansione non ne crei. Cosa che avviene in tutte le grandi fasi di ristrutturazione dell'economia come è appunto quella che stiamo attraversando. Poiché non possiamo minimamente pensare di rallentare il miglioramento della produttività perché (in una economia mondiale sempre più aperta e concorrenziale) ci condannerebbe ad un irrimediabile declino, dobbiamo ridurre gli orari e ripartire il lavoro. Ma proprio perché l'economia è sempre più interdipendente su scala internazionale questa soluzione deve essere adottata senza riflessi negativi sul grado di competitività del nostro sistema produttivo. Oltre tutto da qui passa la nostra possibilità di autonomia di decisione. Se la competitività, rispetto ai paesi con i quali siamo in concorrenza, rimane invariata, comunque non peggiora, possiamo decidere di intervenire sugli orari anche se altri non lo dovessero fare. Ciò premesso la nostra proposta è di ridurre gli orari settimanali del 15 per cento circa. Che vuol dire 32/33 ore lavorative alla settimana suddivise su 4 giorni. Questa soluzione dovrebbe essere realizzata attraverso un accordo triangolare (imprese, sindacati, governo) e riguardare tutti i settori dell'economia. Il finanziamento dell'ac-
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