Il Bianco & il Rosso - anno IV - n. 46/47 - nov./dic. 1993

D!LBIANCO ail.ILROSSO Uikiiliii verificatesi nel corso degli anni Ottanta; se ne potrà qui solo accennare. Innanzitutto nel corso degli anni Ottanta vi è stata un'evidente divaricazione tra andamento dell'orario contrattuale e dell'orario di fatto. Dal 1980 al 1992 l'orario annuo fissato nei contratti nella media dell'industria in senso stretto si è ridotto di circa 60 ore, mentre le ore effettivamente lavorate al netto della Cig sono cresciute di circa 90 unità, con un massimo di 125 ore tra il 1980 e il 1989. Da qui si ricava che la politica del tempo non potrà trascurare il contesto normativo, legislativo e contrattuale, che condiziona la gestione dell'orario di fatto; le nuove regole devono eliminare il paradosso di uno straordinario che costa all'impresa meno di un'ora di lavoro ordinario. Il secondo elemento da considerare, che ha mutato consistentemente lo scenario degli anni Ottanta, è stata la crescita degli strumenti di flessibilità dell'orario, con una spinta molto forte a regimi non standardizzati. Questo ha portato naturalmente ad un decentramento negoziale del tempo di lavoro, con esiti a volte realmente innovativi, ma spesso lasciando il governo della flessibilità agli strumenti più tradizionali, quali appunto lo straordinario e la Cassa Integrazione. Occorre ripartire con la consapevolezza che la tendenza alla differenziazione continuerà e quella al decentramento va indirizzata, più che contrastata; va perciò dato spazio agli strumenti più innovativi (dall'orario multiperiodale al part time), mentre lo straordinario va utilizzato solo eccezionalmente. La crescita della domanda di orari non standard, che proviene dagli stessi lavoratori, è stata un altro fenomeno tipico, sviluppatosi nel corso degli anni Ottanta; i bisogni di gestione del tempo dei singoli sono oggi più articolati, come sono più articolate le figure presenti sul mercato del lavoro. Per rispondere a quest'esigenza, sentitissima ad esempio nell'universo femminile, occorre facilitare l'accesso a regimi di orario diversificati su più fasce (32 o 24 ore), come pure 59 la possibilità di praticare regimi di orario flessibili ed autogestiti. Va facilitata l'alternanza tra periodi di lavoro e periodi dedicati alla formazione oppure alle cure parentali. Una grande occasione mancata negli anni Ottanta è stata quella d~lla modernizzazione degli orari praticati nella pubblica amministrazione ed in parte dei servizi. A metà del decennio, la contrattazione ha avuto una certa effervescenza, aggiornando i potenziali strumenti di gestione del!' orario e mutuando la flessibilità tipica del settore privato; ma poi, come tanti computer nella pubblica amministrazione, gli strumenti sono rimasti imballati nei magazzini. La situazione di rigidità è rimasta immutata e questo non è più tollerabile: i segnali al riguardo sono stati molteplici. La gestione degli orari nella pubblica amministrazione è già dentro una nuova dimensione della politica del tempo, come gestione dei tempi sociali, sperimentata con qualche risultato nella seconda parte degli anni Ottanta in alcune realtà italiane. L'obiettivo è quello di abbassare i livelli di sincronizzazione delle diverse attività, arrivando a coordinare a livello territoriale gli orari praticati. Abbiamo già alcune opportunità istituzionali, che vanno rafforzate, ma soprattutto metabolizzate in effettive sedi di concertazione tra le parti sociali. Le indicazioni sinteticamente prospettate delineano un quadro di intervento complesso, ma organico, chiaramente ispirato ad una logica di sussidiarietà; l'intervento a livello centrale è pensato non precostituendo soluzioni, ma individuando percorsi ed opportunità. Non mi sembra quindi molto rilevante la vecchia diatriba tra strumento legislativo e strumento contrattuale, una volta che si siano definiti i ruoli relativi. È indispensabile però rendersi conto che una nuova politica del tempo di lavoro non si pratica solo per ragioni congiunturali in una stagione; essa è un impegno più duraturo e non delegabile.

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