Il Bianco & il Rosso - anno IV - n. 46/47 - nov./dic. 1993

{)!.LBIANCO ~ILROSSO iiiiiiliii si del Pds a questo andazzo, inseguendo la Lega su questo pericolosissimo terreno: all'invito di Mussi a non pagare le 85.000 di tasse, e all'invito «formentiniano» del presidente pidiessino della Regione Toscana ai comuni, vorrei aggiungere l'elemento di maggior pericolosità, il progetto di federalismo fiscale del Pds, che non è equiparabile a quello della Lega ma che è già oltre la soglia dell'auspicabile autonomia impositiva dei comuni. È intuitivo che, anche nella prospettiva del Pds, il flusso fiscale resterebbe in gran parte nella regione di provenienza, drenando, così il grosso delle risorse finanziarie alle aree più deboli. In nome del «diritto al controllo sulle modalità d'impiego del prelievo fiscale» si dimenticherebbe un problema almeno altrettanto importante, la distribuzione di quel prelievo in base a priorità individuate con criteri equitativi e solidaristici. Un'altra vittima di questo clima è la questione sociale, intesa nel senso più ampio. Vengono sottolineati spezzoni di quella problematica, da parte di soggetti che leggono la realtà sempre con modalità compartimentate. Ad esempio, il problema della sanità e dell'occupazione vengono lette in un'ottica di categoria, o di tutela territoriale di un certo livello di servizi, o di un braccio di ferro contrattuale. Si registra raramente, invece, un interesse complessivo per la questione sociale, coinvolgendo anche le variabili più spigolose del problema (una finanza pubblica delle cui condizioni non ci si può non far carico) e quelle più periferiche, dal problema della famiglia a quello del Sud di casa nostra e del «vero» Sud del mondo. I Cristiano-Sociali hanno posto giustamente al centro del loro programma tale questione, ma posso dire che questa è anche una delle principali preoccupazioni del Partito popolare. Su questo terreno credo che vi siano grandissimi e fecondi margini di confronto. A dire il vero, credo che ve ne siano molti altri di terreni su cui confrontarsi. Sembra però che vi sia una sorte di diaframma, per il quale tale incontro non può superare la soglia del livello meramente culturale, e non diventare anche una possibile sinergia politica. Per essere fedele allo spirito di un confronto aperto, non voglio ricorrere a perifrasi: il problema che si pone è quello per il quale il nosto polo «popolare» (o anche, per dirla con Martinazzoli, di centro riformatore) rappresenterebbe, per alcuni già adesso, per 19 altri in via di costituzione, il polo conservatore del sistema politico italiano. Sembra che il bipolarismo sia un destino ineluttabile-auspicabile, e che sia un incantesimo che metterebbe «finalmente» ordine nella pasticciona anomalia italiana, intendendosi che le sole «vere» democrazie sono quelle in cui è possibile battezzare le forze politiche in progressisti e conservatori. Questo per confessarvi, in modo molto immediato, un mio disagio, che però nasce dal registrare un pregiudizio culturale e uno politico, che avverto. Al primo livello, vorrei richiamare un dibattito degli anni '90 (e già della fine degli anni '70), in cui fu «scoperta» la complessità della vita sociale, e dunque furono ridisegnati tutti i paradigmi, proprio a partire da quelli tradizionali: destra, sinistra, conservatori-progressisti, . . . In quegli anni, mi innamorai di quelle tesi molto meno di altre persone che hanno avuto il merito di introdurre il tema della complessità e delle teorie sistemiche nel mondo cattolico, e che oggi sono gli alfieri del paradigma- Westminster come l' unica aria salubre per il nostro sistema politico. Pensavo infatti che non si potessero ridimensionare così facilmente le divaricazioni fra interessi presenti nella società, e che vi fossero ancora, disseminati su vari problemi e fra varie forze, nuclei di cultura politica di destra e di sinistra. Oggi però mi chiedo, con la stessa volontà di operare un discernimento critico: possibile che le acquisizioni su uno scenario postideologico, sulla semplificatorietà delle definzione per antinomie, sulla complessità ineludibile, si siano del tutto dissolte? Possibile che alla parole d'ordine d'allora se ne sia sostituita ex abrupto una nuova (il bipolarismo), e che dopo la stagione in cui tutto era così complesso ne sia iniziata una in cui tutto è così «dicotomicamente» semplice? Vi è poi un pregiudizio più politico, per il quale siamo in presenza di una nuova conventio ad excludendum, di un nuovo «preambolo», si dice che il Partito popolare potrà anche avere una cultura politica con contenuti progressisti, ma finché non passa il Rubicone che divide i due poli rimarrà sotto tutela delle forze conservatrici. Anche qua, ci sono curiosi avvitamenti del dibattito politico, per cui alcuni di coloro che, assieme a noi, denunciavano negli anni '80 la conventio ad excludendum verso il Pci, teorizzano oggi quella (ancor più astratta e immotivata) per la quale il Partito popolare non può comun-

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