U!LBIANCO ~ILROSSO PiiiiiNM DonPuglisiu: nmartire controil «cuore»dellamafia di Giuseppe Lumia L a morte di don Giuseppe Puglisi rischia di finire nel dimenticatoio. Sbollita la rabbia iniziale si tende a relegare tale omicidio tra i tanti che sono avvenuti in questi anni. Ci sono invece molte ragioni per non sottovalutare tale morte. C'è ancora molto su cui riflettere e maturare. Don Giuseppe Puglisi è il primo morto per mano della mafia che aveva scelto di agire in modo sistematico per la socializzazione del territorio. Lo conoscevo da tanti anni, sin dai tempi in cui nella Fuci di Palermo, lui da assistente, si lavorava insieme per costruire nella dimensione culturale un impegno rivolto al cambiamento e un percorso di maturazione sociale diffusa attraverso l'esperienza del volontariato. Da quando era diventato parroco a Brancaccio, un quartiere tra i più controllati e dominati dalla mafia, don Puglisi non si era stancato di procedere in modo progettuale per abbattere le vecchie abitudini, ridare dignità alla gente, offrirle strumenti di crescita culturale e strade per risolvere i propri bisogni senza, svendersi alla logica del privilegio, delle clientele e del potere mafioso. Recentemente don Puglisi era ancora una volta riuscito a suscitare l'impegno di tanti giovani, di tante famiglie che con lui, come comunità parrocchiale e realtà di volontariato, avevano accentuato questa dimensione di lavoro per la socializzazione del territorio. Aveva preso sul serio le parole del Papa nel suo recente viaggio in Sicilia, per un'azione dei credenti più coraggiosa e costante nella lotta alla mafia. A Brancaccio don Puglisi aveva iniziato un lavoro che non mirava ad una generica crescita di un movimento d'opinione, ma andava più in pro18 fondità: autorganizzare la gente e inserirla in percorsi di partecipazione capaci di liberare, soprattutto tanti ragazzi, dalla cultura e dal dominio della mafia. Eppure, dopo questa morte a Brancaccio non è cambiato quasi niente sul piano della risposta delle istituzioni. Molti responsabili istituzionali non hanno lesinato solidarietà e sdegno, ma niente investimenti nel risanamento dei quartieri, niente scuole, niente ripristino dei più elementari diritti di cittadinanza, si affida tutto al1' aspetto militare-pressivo. Di recente solo la Commissione Parlamentare Antimafia ha iniziato a fare qualcosa, sollecitata da volontariato con proposte documentate nate dalle reali esperienze nei quartieri più a rischio. Così pure dobbiamo riconoscere che neanche tra le forze politiche di progresso, di sinistra e spinte al cambiamento si trovano tracce sostanziali di lavoro e azioni coerenti di lotta alla mafia organizzate in tal senso. La mafia ha invece capito benissimo il pericolo che le viene da forme di impegno che utilizzano la dimensione sociale nel!'animazione della vita dei quartieri. Le famiglie mafiose non possono rinunciare a dominare i luoghi della propria riproduzione, della propria resistenza di fronte agli attacchi che gli arrivano sui versanti politici ed economici. Spesso si scrollano le spalle o si guarda con sufficienza alla socializzazione del territorio perché mette in .gioco un tipo di società e la sua organizzazione concreta, ad esempio la strutturazione delle città, i poteri in gioco, i valori di riferimento, i livelli di partecipazione, il rapporto con i consumi e la stessa organizzazione economica. Si preferisce ancora pensare la mafia come un retaggio del passato, qualcosa che pro-
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==