Il Bianco & il Rosso - anno IV - n. 45 - ottobre 1993

ISS 1120-7930- SPED.ABB.POST.- GR. mno% ~lLBIANCO l.XILROSSO MENSILE DI DIBATTITO POLITICO Alcentropiùconfusione cheprogrammi di Pierre Carniti n certo numero di politici itau liani, e tra questi gran parte degli esponenti del quadripartito che aveva sostenuto il governo Amato, si dicono spaventati dal bipolarismo. Cioè dal fatto che anche in Italia il sistema politico si fondi sulla democrazia dell'alternanza, invece che sulla proporzionale, sulle coalizioni e sul consociativismo, come è avvenuto per mezzo secolo. Si dicono preoccupati di fronte alla prospettiva di una radicale divisione politica. Perché temono (o dicono di temere) che anziché produrre due schieramenti tra 45 ANNOIV0 • OTTOBRE1993• L.3.500

IN QUESTO NUMERO EDITORIALE Pierre Carniti Al centro più confusione che programmi pag. ATTUALITÀ Luigi Viviani Finanziaria '94: per il Sud un sapore amaro pag. Lia Ghisani Per la scuola: interventi pesanti, senza strategia pag. Giuliano Cazzola Sanità e nuova Finanziaria: dalla padella nella brace? pag. Giuseppe De Lutiis Servizi segreti: 30 anni di ambiguità e tradimenti pag. Ennio Di Francesco Servizi: meno segreti e più efficienti pag. Stefano Allievi Islam d'Italia: una presenza che viene da lontano pag. Giuseppe Lumia Don Puglisi: un martire contro il «cuore» della mafia pag. Mario Stoppini 25 settembre: Autoconvocati in piazza, un equivoco pericoloso pag. Giorgio Tonini Dopo l'illusione: un addio e un augurio. pag. (Lettera aperta a Mario Segni) Stefano Ceccanti Segni svolta, noi proviamo a proseguire pag. DOSSIER Cristiano Sociali: Convenzione Nazionale Costituente (Roma. 9 ottobre 1993) Manifesto politico-programmatico pag. Linee essenziali per l'elaborazione di un programma pag. di politica sociale Laura Rozza Giuntella Unire il popolo della sinistra dei valori .pag. Ermanno Gorrieri Una grande riserva di energie e di programmi Luciano Guerzoni È il momento di costruire il polo progressista Giuseppe Lumia Una visibilità politica nel polo progressista Giorgio Tonini Chi siamo. Dove siamo. Insieme. Per fare che cosa? Sandro Antoniazzi Non un partito nuovo, ma un impegno nuovo Luigi Viviani Sindacalisti «cristiani» e nuova domanda politica Giudo De Guidi Energie nuove e inedite per la democrazia compiuta Riccardo Della Rocca Associazionismo e volontariato: un nuovo inizio in politica Carlo Mitra Una rinnovata sensibilità. Dalla Cooperazione ai Cristiano Sociali Michele Giacomantonio Cristiano Sociali: qualche domanda finora inevasa Gino Vecchio Per un libero pluralismo tra i laici cristiani La questione sociale al centro del rinnovamento della politica (sintesi delle conclusioni di Pierre Camiti) Appello finale Presenze e Messaggi INTERVENTI Ennio Di Francesco Don Pino: piccolo prete, grande testimone Illustrazioni tratte da «Bevels and Jewels Stained Glass Pattern Book» USA Per assoluta mancanza di spazio questo numero è privo della parte relativa ai problemi internazionali, e delle sezioni «Documenti» e «Scaffale». pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. pag. 1 5 7 9 11 13 15 18 21 23 25 28 30 35 37 38 40 41 43 45 47 48 50 50 51 53 54 55 58

{) !J, BIANCO "-'L, ILROSSO •!H@Ku;ffflld di loro alternativi, si riduca a due soggetti: la Lega ed il Pds. Per evitare questo pericolo, un bel pezzo di Democrazia Cristiana, con un po' di socialisti, di repubblicani, di liberali e socialdemocratici superstiti, e con l'aggiunta del figliol prodigo Segni e di Pannella, occupatissimo ad entrare ed uscire dalla clandestinità, stanno dando vita, con un certo spreco di parole e di tempo, al tentativo di organizzare elettoralmente un'area di centro moderato. Si deve riconoscere che diffuse resistenze al cambiamento e l'adozione di una improvvida legge elettorale rendono non implausibile un simile disegno. Non è quindi escluso che tanto fervore possa portare a qualche approdo organizzativo. Sembra invece piuttosto improbabile che esso possa portare politicamente da qualche parte. Perché l'unico risultato che può conseguire è di prolungare (non senza rischi) il tramonto boreale al quale stiamo assistendo. Dove il sole non muore e non nasce. Il vecchio sistema politico non vuole scomparire ed il nuovo non riesce a nascere. Ci sono diverse ragioni che inducono a giudicare la proposta «neocentrista» più come un soprassalto di nostalgia, piuttosto che come progetto capace di rispondere ai problemi del nostro tempo-. Intanto, perché bisogna dire che Tangentopoli non è soltanto una storia di «ladri comuni». Non è solo l'emersione dell'avidità, della disonestà di politici, imprenditori, funzionari pubblici, che la magistratura è, naturalmente chiamata a perseguire e (si spera) a giudicare, ma è soprattutto la prova del fallimento del vecchio sistema politico-istituzionale. Infatti un sistema politico con scarso od inconsistente ricambio è, per sua natura, più immorale di quelli 3 nei quali i meccanismi elettorali ed istituzionali inducono l'alternanza tra schieramenti diversi. L'inamovibilità produce impunità e questa, a sua volta, illegalità. Fuori dai polveroni sollevati solamente per confondere, la conseguenza da trar- _re è che l'invocata «risposta politica» ai problemi di Tangentopoli non dovrebbe avere nulla a che fare con le ricorrenti tentazioni di «un colpo di spugna», ma dovrebbe consistere, al contrario, nel creare le condizioni per il passaggio alla democrazia dell'alternanza, visto che coalizioni e consociativismo hanno prodotto il disastro che è sotto gli occhi di tutti. Una seconda ragione va tenuta presente. Malgrado siamo stati governati per mezzo secolo da coalizioni nelle quali il maggior partito si autodefiniva di centro, un vero Centro moderato, nel significato politico del termine, in Italia non è mai sostanzialmente esistito. La Dc, perno degli equilibri di governo, non è mai stata un partito puramente conservatore, sia per gli impegni programmatici assunti che per l'assenza di una condizione fondamentale. Un polo conservatore infatti presuppone sempre l'esistenza di un polo progressista legittimato ad alternarsi al governo. Così non è mai stato in Italia. Fino a tre anni fa il mondo è stato diviso in blocchi. A partire dall'immediato dopoguerra e soprattutto con le elezioni del 1948, l'Italia scelse il blocco occidentale. Ma l'Italia è stata per decenni anche il paese con il più grande e più forte partito comunista d'occidente e la maggioranza degli ita)iani non ha mai potuto prendere in considerazione la possibilità di una alternativa. Perché una alternativa a guida comunista è sempre stata considerata (non immotivatamente) un'alternativa di sistema, più che di politica, e dun-

D.ll, BIANCO ~ILROSSO que rifiutata. L'anticomunismo (soprattutto) è stato quindi per mezzo secolo il vero collante del nostro sistema di governo. Un collante che, ovviamente, non ha impedito, tenendo conto delle congiunture politiche e degli esiti elettorali, geometrie variabili nel quadro politico. Si è così passati dal centrismo, al centro-sinistra al pentapartito, pur con una breve esperienza di «Unità Nazionale», quando per la minaccia terrorista alla democrazia, il Pci ha potuto entrare nella maggioranza pur dovendo restare fuori dal governo. In sostanza per circa mezzo secolo le diverse formule hanno sempre tratto la loro legittimità, più che dalle loro piattaforme programmatiche, da una azione di governo condotta contro una destra neofascista ed una sinistra c;;omunista,impresentabili in Occidente. Del resto il Centrismo degasperiano (quello politicamente e strategicamente di più alto profilo) non è mai stato motivato sulla base di una piattaforma politica conservatrice (come esigerebbe appunto un centro moderato), ma piuttosto come il prodotto della peculiarità della nostra storia politica. Oltre tutto le posizioni programmatiche della Dc sono sempre state il risultato del miscuglio di diversi ingredienti. Dalla valorizzazione sturziana della laicità e delle autonomie al solidarismo interclassista, alla cultura (non proprio popolare) del cattolicesimo liberale. Non a caso, infatti, dagli elettori italiani la Dc è stata vissuta e votata soprattutto come garanzia costituzionale, come diga anticomunista; come argine antifascista. Era una diga che, fino a poco tempo fa, si reggeva, oltre che sul contesto internazionale, sulla proporzionale e sulla conseguente necessità di coalizioni. Oggi però il comunismo, come movimento po4 litico organizzato, è morto (anche se mantiene i suoi devoti, in Italia come in Russia) e il neofascismo è sempre pericoloso, ma resta fortunatamente marginale. A sua volta la legge elettorale proporzionale è stata abolita. Non si capisce quindi sulla base di quale disegno culturale e di quale strategia politica si voglia e si possa ricostruire· il Centro. Si deve inoltre tener conto che, mentre abbiamo avuto partiti di centro, il più importante dei quali guardava però a sinistra (secondo la formula degasperiana), non abbiamo mai avuto una cultura conservatrice democratica, nel significato europeo del termine. E dovrebbe essere un'impresa piuttosto complicata inventarla dal nulla. C'è infine un duplice dato che non dovrebbe essere offuscato. Primo, le forze coinvolte nella confusa ed affannosa corsa al centro (Dc, socialisti, partiti laici) sono quelle più decimate dalle inchieste della magistratura sulla corruzione politica. Secondo, sono inoltre quelle il cui retroterra elettorale e sociale, anche per l'esaurirsi delle risorse che consentivano in passato mediazione e scambio politico, oggi è più frantumato e disperso. Non si vede perciò su quali basi, con quali ceti e gruppi sociali si voglia costruire un Centro moderato. Non è quindi arbitrario ritenere che, fuori da una prospettiva di trasformazione bipolare, laricostituzione di un Centro moderato può melanconicamente servire soltanto a presidiare la sempre più affannosa autodifesa ed autoconservazione di un ceto politico in declino, ma non può servire ad affrontare e risolvere la crisi italiana. Anzi, rischia solo di ostacolare (o anche semplicemente ritardare) l'una e l'altra cosa.

,P!I~ Bli\NCO lX_tl_AR()SSO ATTUALITA Finanziaria'94:peril Sud unsaporeamaro di Luigi Viviani L e insufficienze e le contraddizioni del recente disegno di legge finanziaria predisposto dal governo emergono con maggiore chiarezza ove si analizzi il documento dal punto di vista degli interventi nelle aree meridionali. Da questo angolo di visuale questa legge finanziaria ha un'importanza particolare perché è la prima dopo la fine dell'intervento straordinario e quindi costituisce un banco di prova delle nuove politiche pubbliche che dovrebbero favorire una accelerazione dello sviluppo meridionale per rendere effettivo il processo di coesione economica e sociale del paese. Dopo un esame analitico delle poste di bilancio che riguardano il Sud non si puo' non rimanere con la bocca amara visto che di nuovo appare ben poco. In generale gli stanziamenti sono pressoché uguali a quelli della Finanziaria 93 ed ammontano a 9824 miliardi e sono raccordati alla effettiva capacità di spesa realizzata negli anni precedenti. Nelle diverse tabelle si rintracciano le risorse destinate a completare i progetti della Legge 64, a rifinanziare la legge 44 sull'imprenditorialità giovanile, ad affrontare i drammatici problemi del degrado economico e sociale di Reggio Calabria, al completamento della ricostruzione delle zone terremotate e ad altri progetti minori. 5 Una finanziaria fondata quindi sulla continuità del finanziamento delle code della vecchia legislazione speciale mentre le risorse per la nuova politica di sostegno delle aree depresse dovrebbe essere garantita attraverso il cofinanziamento dei progetti relativi all'uso dei fondi strutturali comunitari e ad una quota dei bilanci ordinari dei diversi Ministeri. Francamente credo sia più che lecito dubitare sulla concreta praticabilità di questo disegno anche alla luce della situazione reale della politica del governo per il Mezzogiorno recentemente illustrata dal ministro Spaventa. La prima contraddizione tra intenzioni e realtà, che appare con rilievo particolare, riguarda il vuoto che si è creato nelle politiche governative dopo la fine del vecchio intervento straordinario. Il Decreto legislativo 96/93 ha provveduto a smantellare le vecchie strutture della politica meridionalistica, ha distribuito a vari ministeri le funzioni prima assegnate all'Agensud, ha provveduto in modo semplicistico e radicale a dettare le condizioni di trasferimento del personale nella pubblica amministrazione, ma non si è curato della transizione dal vecchio al nuovo intervento. Così oggi il flusso delle risorse finanziarie per il completamento dei vecchi progetti procede a

Dl.LBIANCO ~ILROSSO iii•iiliii rilento per opera di un Commissario liquidatore che per sua natura è intento alla semplice gestione formale e burocratica delle pratiche. Tra l'altro il numero dei progetti approvati nell'ultima fase di vita dell'Agensud e l'entità delle risorse relative sono tali da impegnare per almeno i prossimi tre anni, tutta la capacità di spesa dello Stato. Ciò ha giustamente indotto il Ministro del bilancio a decidere tutte le revoche possibili per i progetti la cui realizzazione non è partita e a riprogrammare le risorse così risparmiate. Ma anche con questa misura il quadro generale non è destinato a cambiare gran che. La seco.nda contraddizione con cui fare i conti riguarda il sostanziale disimpegno del Governo, che la Finanziaria sancisce chiaramente, nelle politiche di sostegno dell'economia reale ed in particolare del sistema produttivo. Un certo modo di praticare la politica del risanamento della finanza pubblica non lascia praticamente spazio a politiche di investimento nella struttura produttiva e nel fattore umano consentendo un loro progressivo impoverimento con prevedibili effetti disastrosi sulla nostra capacità di competizione a livello internazionale specie quando una certa ripresa sarà iniziata. Inutile sottolineare che tutto ciò colpisce particolarmente i tradizionali insediamenti industriali nel Mezzogiorno che, già debilitati dalla ormai consumata sparizione del sistema delle Partecipazioni Statali come soggetto di politica indu6 striale, allontana «sine die» la possibilità di recupero del Sud rispetto al resto del paese, rende sempre più drammatica la situazione della disoccupazione per decine di migliaia di giovani e di adulti meridionali. Lo stesso interessante tentativo del Ministro del Bilancio di coordinare la domanda pubblica ed accelerare la spesa relativa attraverso accordi di programma con le singole regioni non vede finora coinvolta una sola regione meridionale. Quindi per il Mezzogiorno questa finanziaria non promette nulla di buono e non vorremmo che, di fronte a questa latitanza della politica pubblica non si diffondesse l'idea che, nel Sud, per farsi ascoltare sia necessario spingere il conflitto oltre limiti consentiti dall'ordine pubblico. Non basta proclamare che non dovranno più esserci nuove Crotone se non si creano preventivamente le condizioni affinché i conflitti siano regolabili e, almeno in parte, risolvibili. Credo che ormai siamo arrivati al limite di rottura: se non riparte una mole più consistente di investimenti pubblici e non si incomincia ad invertire la tendenza in materia di occupazione lo stesso disegno di risanamento finanziario dello Stato che finora è stato l'asse centrale della politica economica del governo Ciampi verrà inevitabilmente rimesso in discussione. Per questo sono necessarie modifiche non marginali e di facciata altrimenti l'intera situazione del paese è destinata a volgere ulteriormente al peggio.

{)!L BIANCO ~ILROSSO iiikNIAM Perlascuola:interventi pesanti,senzastrategia di LiaGhisani nche la finanziaria '94 non sfugge di fatto, A nonostante alcuni proclami altisonanti e qualche segnale contraddittorio, ad una impostazione ragionieristica: la oggettività della fase recessiva viene assunta per una consistente riduzione della spesa pubblica senza scelte significative verso un risanamento e una riqualificazione delle prestazioni e del sistema di welfare. Un governo solo apparentemente «neutro» dal punto di vista sociale ha risposto alla più che giustificata domanda di servizi più efficienti e funzionali, contrabbandando come riforma della Pubblica Amministrazione una sostanziale scelta restauratrice: il lavoro pubblico diventa terreno di intervento unilaterale, quasi di per sé fosse la causa di sprechi e di disfunzioni, smantellando ogni ipotesi di relazioni sindacali corrette proprio quando il sindacalismo confederale, con la conquista della delegificazione del rapporto di lavoro, assumeva la centralità dello scambio tra lavoro-produttività ed efficacia dei servizi. Un approccio inutilmente penalizzante che non incide sui nodi veri, sulle grandi responsabilità di lobbies amministrative e politiche, che in questi anni hanno impedito o vanificato riforme da noi con gran forza richieste, e che, in una logica veramente vecchia, suppone siano possibili riforme a prescindere dal protagonismo del lavoro. Anche gli interventi sulla scuola - alcuni dei quali assai pesanti, altri che potrebbero rappresentare una vera opportunità di cambiamento - non sfuggono ad una visione pesantemente, quasi strumentalmente segnata dall'emergenza. Con decisione unilaterale, ad organici ormai definiti, a libri di testo ormai acquistati, per alzare la media nazionale di alunni per classe si sono 7 assegnati ai provveditori, ad agosto, parametri nuovi su cui costruire le classi, parametri definiti al centro, a tavolino, spesso non adattabili, se non con pesantissime ripercussioni sull'esercizio del diritto allo studio, alle varie realtà territoriali. Un'operazione che, se fatta con la gradualità concordata e con indicazioni chiare all'Amministrazione periferica per un governo del processo sul territorio, poteva realizzarsi senza traumi, ha, invece, creato nella scuola confusione, proteste, sicuramente un abbassamento della qualità del servizio (coesistono, infatti, classi di 7 alunni e classi di 33 nella scuola dell'obbligo) e scarsi risparmi, considerati i disagi e le spese che famiglie ed Enti Locali sono costretti ad affrontare in termini di trasporti e di servizi. Esiste nella scuola il problema oggettivo di un riequilibrio del rapporto docenti-allievi a seguito del calo della popolazione scolastica; esiste sicuramente un problema di razionalizzazione della spesa in questo, come in altri settori pubblici. Ma la scelta da fare a monte, che certo questa finanziaria non fa, ma sulla quale le forze politiche dovrebbero pronunciarsi con più chiarezza, è di tipo strategico. Il nostro paese vuole continuare sulla strada della progressiva riduzione degli investimenti sulla scuola (il 7,95 del Bilancio dello Stato nel1'83, il 6,8 nel '93) e, quindi, andare verso un impoverimento progressivo del sistema, espellendo progressivamente personale in modo più o meno traumatico, oppure vuole scegliere di governare una razionalizzazione finalizzata della spese per la formazione? Le Confederazioni sindacali nell'accordo di luglio hanno tentato di far assumere al governo alcune scelte strategiche sull'innalzamento del1'obbligo scolastico (il più basso d'Europa), sulla

D!LBIANCO ~ILROSSO iii•iillt;i necessità di un piano contro la dispersione e l'evasione scolastica (fortissima in Italia e correlata, come è noto, ad un pericoloso drop-out sociale), sulla revisione del sistema di formazione professionale, dell'istruzione secondaria e postsecondaria nella direzione di un sistema formativo integrato e più obiettivamente legato alle esigenze del m.ondo del lavoro sul territorio, sul1' autonomia delle istruzioni scolastiche. Nella Finanziaria, di quell'accordo è presente solo qualche eco nel provvedimento sull' autonomia scolastica, da noi fortemente richiesto, ma che per il contesto in cui è inserito (una legge funzionale ai tagli di spesa) induce non poche perplessità sulle vere intenzioni del governo. Il pericolo è che, incapaci di assumere un vero governo del personale funzionale ad un' offerta formativa più ricca e legata alle esigenze concrete del territorio, si decentrino le contraddizioni, illudendosi che un po' di potere ai presidi per lo più mal reclutati, serva a far risparmiare e a far funzionare meglio la scuola. La strada di irrobustire l'autonomia didattica, organizzativa e gestionale delle scuole è un percorso necessario, ma proprio perché i rischi di frantumazione (20.000 scuole), di pesante e non controllata differenziazione della qualità dell'offerta sono reali, l'autonomia delle scuole deve essere accompagnata da un decentramento dei poteri dell'Amministrazione, in modo che a livello provinciale, e per alcune materie anche a livello regionale, si sviluppi un'azione di governo, di controllo e di compensazione e la stessa gestione del personale sia spostata a livello periferico (provinciale), attraverso nuovi criteri di determinazione degli organici, accorpamento 8 delle classi di concorso riconversioni professionali, per un utilizzo più mirato delle riforme professionali verso obiettivi di qualità. Il famigerato problema degli esuberi, sul quale si esercitano di volta in volta economisti e giornalisti, dando numeri al lotto, considerato che fino ad ora nella scuola non è mai esistito docente che non avesse una cattedra, è soprattutto un problema di governo della rete scolastica, da un lato, e di governo del personale, dall'altro; vista l'articolazione delle discipline e l'articolazione stessa delle istituzioni scolastiche sul territorio, è a livello decentrato che, definiti gli obiettivi qualitativi (lotta alla dispersione, prevenzione, innalzamento dell'obbligo, post-secondario) anche attraverso il coinvolgimento degli Enti Locali e delle forze sociali, si può operare dentro parametri certi, definiti nazionalmente, per una razionalizzazione che non significhi solo tagli e tagliuzzi. In questa direzione si muove la nostra linea strategica sul rinnovo contrattuale, imperniata sulla costruzione di un vero spazio di contrattazione a livello provinciale. Il provvedimento sull'autonomia incluso nella Finanziaria, che dovrà essere normato attraverso un regolamento attuativo, oggi rappresenta una opportunità, più che una certezza, che si vada in questa direzione. In questo senso si dovrà svi1uppare tutta la forza di pressione e di proposta del sindacalismo confederale: razionalizzare e ristrutturare non può significare ridurre le prestazioni di un servizio pubblico come la scuola alla persona, specialmente in una fase storica in cui l'investimento nella formazione e nella ricerca più che mai assume rilevanza strategica per il Paese.

D!LBIANCO ~ILROSSO iiikiiliii Sanitàe nuovaFinanziaria: dallapadellanellabrace? di Giuliano Cazzola A ridatece er puzzone. Se non fosse per l'impopolarità che si è guadagnata sua Sanità Francesco De Lorenzo a seguito delle note vicende di ordinaria corruzione e concussione, ci sarebbe da aspettarsi che legioni, di pensionati e di altra umanità, allegramente manifestanti contro qualcuno e per qualcosa, si mettessero ad inalberare striscioni con la fatidica frase. Certo, la «ministra» Maria Pia Garavaglia di guai ne ha combinati tanti. Prima e in questa legge finanziaria. Ha cominciato all'insegna del «tutto sbagliato, tutto da rifare» mettendo in discussione il decreto legislativo n. 502 del 1992 nelle sue parti più innovative; in particolar modo, facendo scomparire la possibilità di sperimentare forme mutualistiche e volontarie allo scopo di organizzare la domanda per ottenere migliori prestazioni e servizi dalle strutture pubbliche. Così, la «ministra» si è subito messa in sintonia con il Pds e con tutte quelle forze istituzionali, parlamentari, politiche e sociali che, nel campo della sanità, difendono, con l'esistente, i propri interessi sbandierando senza 9 alcun ritegno la difesa del serv1z10 pubblico. Poi, i fatti hanno la testa dura. E, gratta gratta, ad alcuni mesi di distanza, si scopre che la «terribile coppia» della Casa Bianca (i coniugi Billary che tutto il sinistrismo nostrano magnifica come riformatori della sanità) finisce per concepire un piano molto simile a quello che Giuliano Amato· voleva introdurre in Italia. Anche negli Usa si prevedono - a quanto è dato di capire - «alleanze» di lavoratori e cittadini che contrattano le migliori prestazioni al prezzo più conveniente con le strutture sanitarie. L'on. Garavaglia non si ferma a questo punto. Da par suo decide di delegittimare una legge dello Stato che stabiliva il pagamento (le famose 85 mila lire per certe condizioni di reddito) di un diritto di accesso all'assistenza medica di base. Tanto che si crea una grande confusione da cui deriva un consistente ammanco nelle entrate dello Stato. Infine, viene l'assalto all'assistenza farmaceutica nel momento in cui l'industria del settore (che ha tirato a campare con l'azione di lobby e le mazette) viene sorpresa con ambedue le mani nella

{'~BIANCO ~ILROSSO iiikiiliii marmellata di Tangentopoli. Il Prontuario terapeutico viene giustiziato sul posto e dalla Commissione unica del farmaco vengono cacciati i membri «compromessi» ed inseriti gli ayatollah delle teorie per cui le medicine sono inutili. Con la finanziaria per il 1994, la responsabile della sanità ha dovuto mettere le carte in tavola e proporre al Paese la sua linea, dopo aver distrutto quella dei predecessori. Sinceramente è difficile individuare un qualche senso nelle misure proposte. Negli ultimi anni, i governi che si sono succeduti hanno agito con grande confusione e con il torto di affrontare temi delicati nelle leggi finanziarie. Con l'aggravante di ministri come Donat Cattin e De Lorenzo, che tentavano sempre di dissociarsi e di dare la colpa al Tesoro e alla Presidenza del Consiglio. Una linea, per quanto contorta, poteva però essere individuata, giusta o sbagliata che fosse. I suoi capisaldi erano cosi riassumibili: a) eliminazione degli sprechi e degli abusi; b) collegamento al reddito per quanto riguarda le forme di compartecipazione alla spesa. Sullo sfondo faceva capolino la scelta minacciosa di spezzare un'universalità ormai divenuta troppo onerosa e di caricare sui più abbienti il compito di provvedere a se stessi e alle loro famiglie, per ·talune forme di assistenza, ricorrendo al mercato. Per quest'ultimo aspetto è bene ricordare che il ticket famigerato delle 85 mila lire per la medicina di base è stata, nella finanziaria 1993, una scelta di ripiegamento rispetto alla primitiva ipotesi di escludere i detentori di un reddito familiare di 40 milioni annui da quella tipologia di assistenza. Tornando alla questione degli sprechi, la lunga marcia della moralizzazione passa dalla eliminazione sostan10 ziale degli esenti per indigenza (vero ricettacolo degli evasori), dalla individuazione dei soli pensionati come esenti per reddito, fino ai «famigerati» bollini volti ad eliminare il fenomeno (largamente presente) della traslazione delle prescrizioni. Sul piano del collegamento tra criteri di compartecipazione e reddito vanno annoverati i numerari ticket imposti un po' su tutte le prestazioni (per alcune, in modo anche consistente). Si trattava comunque di una linea di condotta, condivisibile o meno, ma definita anche nelle sue prospettive future. E quella dell'on. Garavaglia? Riesce ad essere contemporaneamente più liberista e più spendacciona. La lista dei farmaci - a quanto si prevede - deve essere predisposta in modo da tagliare circa 7000 miliardi di spesa. Un notevole numero di medicine sarà messo totalmente a carico del cittadino, a prescindere dal suo reddito. La diagnostica e la specialistica saranno praticamente a carico dell'utente. Vengono invece esentati i bambini e gli anziani ultrasessantacinquenni, qualunque sia la loro condizione economica. Succede così che a qualche milione di pensionati, non certo facoltosi - quelli tra 55 e 65 anni - sarà tolta l'esenzione, mentre il sen. Agnelli potrà ritirare gratis le medicine contenute nella lista esibendo la carta d'identità. Si dirà, ed è vero, che in questo modo viene tolto di mezzo un costo amministrativo enorme come quello richiesto dal censimento reddituale degli italiani. Ma, di grazia, come intende la «ministra»porre rimedio alla rinata possibilità di traslazione delle prescrizioni? Ovvero al vizio di chiedere al nonnino del piano di sotto di fare la spesa farmaceutica anche per noi?

{)!LBIANCO ~ILROSSO J;ilklil•ii Servizsi egreti3: 0anni diambiguitàetradimenti di Giuseppe De Lutiis L e cronache degli ultimi trent'anni ci offrono un panorama desolante di quelle che vengono comunemente chiamate «deviazioni» dei Servizi segreti, e cioè in concreto di interventi a protezione di autori di stragi, procurate fughe all'estero di presunti responsabili, depistaggi di magistrati e persino dell'organizzazione di piani operativi di colpi di Stato. Otto stragi, quattordici attentati a treni, tre colpi di Stato condotti fino ad un minuto prima dell'ora «X», e anche oltre: questo un bilancio sommario di quindici anni di strategia della tensione, propiziata dai servizi segreti tra il 1969e il 1984. Per ciascuna delle otto stragi si sono svolte fino a sette distinte Istruttorie: ebbene, in nessuna delle inchieste i Servizi segreti hanno cooperato con i magistrati che indagavano fra mille difficoltà, anzi in quasi tutte sono intervenuti con atti di aperto sabotaggio. Se tutti questi interventi sono stati effettuati per impedire che determinate istruttorie proseguissero sulla strada che avevano intrapreso, evidentemente la via era giusta, e vi erano cose che non dovevano - e non devono - essere conosciute. Non avrebbe avuto alcun senso logico sabotare Istruttorie che avevano imboccato strade sbagliate, che non avrebbero portato alla scoperta di alcunché. A questo punto, ogni risposta che ruoti intorno al concetto di «deviazione, di «degenerazione» mostra tutta la sua inconsistenza. Non è infatti pensabile che tanti episodi di inquinamento si possano ripetere per un periodo di tempo così rilevante senza che vi sia una strategia politica. Né può essere casuale che in tutti gli episodi di affermata «deviazione» negli anni settanta sia sempre rimasto coinvolto il capo del servizio. Le «deviazioni» dei successori si accavallavano con quelle dei predecessori, al punto che mentre 11 questi ultimi entravano nel fuoco incrociato delle polemiche, i primi iniziavano nuovi cicli di attività deviante. Accadde nel 1968, allorché più virulenta era la disputa sull'attività del Sifar del generale De Lorenzo e contemporaneamente i nuovi dirigenti del servizio - nel frattempo ribattezzato Sid per ostentare una inesistente cesura rispetto al passato - intensificarono quei contatti con il mondo dell'estrema destra che poi avrebbero portato alla strategia della tensione e alle stragi. Accadde di nuovo nel 1973, quando ufficiali dei servizi segreti attivarono l'organizzazione eversiva «Rosa dei venti» mentre infuriava la polemica sulle responsabilità dei servizi per la strage di Piazza Fontana. Ancora nel 1978 i dirigenti dei servizi segreti successivi alla riforma, chiamati a emendare i vecchi organismi, attuarono invece nuove e più gravi forme di illegalità, con l'attività del Supersismi di Santovito e Musumeci. Il procurato fallimento delle Istruttorie sugli ecèidi costituisce dunque un aspetto della stessa strategia delle stragi, è parte di un disegno unico, che non può non ·avere un fine politico e degli ispiratori, interni o internazionali, ma superiori agli stessi servizi, perché nessun generale metterebbe a rischio la propria carriera per proteggere personaggi accusati di strage se non avesse avuto ordini in questo senso, ordini che non potevano essere elusi. Si è chiesto ai servizi segreti italiani qualcosa che andava molto al di là dei loro compiti. Per attuare questa strategia ha operato un meccanismo complesso, che aveva certamente un nucleo importante nei servizi sègreti, ma non solo in essi. Vi erano propaggini negli uffici riservati del Ministero dell'Interno, nell'alta magistratura (non dimentichiamo l'inopinato trasferimento a

{)!.LBIANCO ~ILROSSO iiiiiiliii Catanzaro del processo per la strage di Piazza Fontana e lo strangolamento in carcere di Ermanno Buzzi e Carmine Palladino, delitti propiziati in specifici uffici del Ministero di Grazia e Giustizia). Questo complesso di organismi ha dato attuazione al progetto politico che era dietro le stragi e ne ha tutelato poi gli esecutori per venticinque anni. Le risultanze di recenti indagini mostrano inoltre che anche la mafia e settori della massoneria erano parte del sistema. Ora la realtà internazionale è profondamente mutata, ma i frutti avvelenati di quella stagione pesano più che mai sulla realtà italiana. Le stesse bombe del!'estate scorsa e le minacce della fantomatica Falange Armata sono con ogni probabilità messaggi di coloro che hanno avuto una parte negli eventi degli anni settanta, che si avviavano verso una serena e agiata vecchiaia, e ora si sentono minacciati dalle indagini del giudice Cordova, da quelle dei magistrati che hanno riaperto le istruttorie sulle stragi, dalle rivelazioni dei pentiti di mafia, i quali mostrano di conoscere un ventaglio di fatti ben più ampio dei delitti di Cosa Nostra. Ogni riforma dei servizi segreti non può dunque essere disgiunta da una profonda opera di chiarimento di tutti i buchi neri dell'ultimo trentennio. Ben venga, dunque, l'iniziativa del ministro Fabbri di allontanare dal Sismi alcune decine di ufficiali e agenti, ma se l'azione si limitasse al pensionamento anticipato di trecento persone sarebbe una pura operazione di facciata. L'Italia non può avviarsi ad una nuova fase della sua storia politica se non elimina i molti scheletri che sono gelosamente custoditi ·negli armadi del Palazzo. Una seria riforma dei servizi segreti deve dunque procedere parallelamente ad un sostegno tangibile - da parte del potere politico che deve sensibilizzare in tal senso i vertici dei servizi - nei confron.ti di quei magistrati che stanno tentando di chiarire i misteri vecchi e nuovi di trent'anni di vita italiana. Non sembra che, almeno nei confronti dei giudici Casson e Cordova, questo sia avvenuto. E l'epurazione nei servizi deve essere completata da modifiche normative, 12 prima fra tutte un drastico aumento dei poteri di controllo del Comitato Parlamentare, che deve poter verificare anche i bilanci dei servizi segreti, comprese - per grandi linee - le spese riservate. È poi necessario introdurre una norma che preveda la totale pubblicità dei documènti dopo un certo numero di anni, che potrebbe aggirarsi intorno ad un quindicennio. Un limite temporale di queste dimensioni appare un equo compromesso tra le esigenze di riservatezza proprie di un servizio segreto e il diritto della società civile di verificare l'attività di organismi così delicati. Una disposizione di questo tipo costituirebbe inoltre una remora anche contro possibili future «deviazioni». Nessun dirigente del servizio accetterebbe di compiere azioni incostituzionali se sapesse che dopo quindici anni esse divengono di pubblico dominio. Naturalmente, per una efficace riforma è necessario anche un radicale rinnovamento dei quadri. Troppi ufficiali e agenti sono stati formati professionalmente nell'ottica di Yalta ed è difficile riprogrammarli ai nuovi compiti che attendono gli uomini dei servizi in un mondo dove gli alleati di ieri possono divenire gli avversari di domani e dove si può colpire un Paese anche acquistando le sue industrie. Comunque non mancano certo, nei ranghi degli stessi servizi, della Polizia, della Guardia di Finanza o della società civile, giovani qualificati in grado di assolvere i nuovi delicati compiti. Ma la più efficace riforma dei servizi può derivare soltanto da un diverso atteggiamento del potere politico. I dirigenti dei servizi segreti devono avvertire tangibilmente che i vertici istituzionali chiedono loro di tornare a svolgere esclusivamente i compiti d'istituto. Gli ufficiali dei servizi, in particolare di quelli militari, non dovranno più trovarsi nella scomoda posizione di essere chiamati a rispettare un doppio giuramento e una doppia fedeltà: alla Costituzione e ad alleanze militari sovranazionali. Essi devono sapere che in caso di contrasto - al contrario di ciò che è avvenuto in passato - i vertici politici esigono da loro che venga data priorità alla Costituzione della Repubblica.

{)!LBIANCO ~ILROSSO iiiiiiliii Servizi:menosegreti epiùefficienti di Ennio Di Francesco arlare dei Servizi Segreti è sempre P delicato, talvolta pericoloso. Ma proprio grazie all'impegno di coraggiosi I I magistrati e giornalisti è iniziata '' quella verifica che ha portato un po' di luce su certe inquietanti degenerazioni ed infine al dibattito parlamentare per la loro riorganizzazione ... ». Così iniziava un mio articolo sull'Espresso, nel gennaio 1978! Così potrebbero iniziare queste considerazioni ... quindici anni dopo! Alcuni magistrati hanno accertato comportamenti a dir poco non ortodossi di «agenti segreti», ed i giornalisti (di cui ciclicamente si vorrebbe ridurre «l'eccessiva libertà») hanno fatto si che di ciò si parlasse. Lo sconcerto e lo sgomento della gente dinanzi ai recenti clamorosi arresti di alti funzionari del Sisde, da Contrada prima a Broccoletti e gli altri dopo, sono evidenti. La speranza è che si tratti di episodi meno gravi dell'apparenza, comunque circoscritti e non coinvolgenti nel loro complesso i «Servizi» sia sul piano della correttezza investigativa che della gestione finanziaria. Toccherà alla Magistratura dire l'ultima parola sulle responsabilità penali: tuttavia le inchieste avviate lasciano intravedere sin da ora complesse equivocità e disfunzioni. Ciò si aggiunge ad una constatazione comune di non brillante funzionalità circa l'apporto informativo che i «Servizi» avrebbero dovuto e dovrebbero dare alle forze di Polizia ed all'Autorità giudiziaria per sostenerne l'azione preventiva e repressiva di eventi pericolosi per la «sicurezza democratica». Se è ovvio che i «Servizi», per loro definizione «segreti», non usano strombazzare attentati sventati o rivendicare operazioni da essi stimola13 te ma concluse da altri Organismi operativi, è altrettanto vero che dal '69 ad oggi non c'è una sola strage (piazza della Loggia, piazza Fontana, Italicus, stazione di Bologna, Ustica ... ) che sia stata scoperta o in cui il loro contributo di «intelligence» si stato utile. Anzi è giudiziariamente dimostrato che in diverse indagini esso è stato orientato più a depistare che ad aiutare i magistrati inquirenti (si pensi a quanto emerso per le stragi di Peteano, della stazione di Bologna, del treno di Natale '84... ). Ed intanto ancora a Roma, Firenze, Milano... continuano ad esplodere bombe distruttive e stragiste. Questo quadro non rassicurante ha spinto il «Comitato parlamentare per i Servizi di informazione e di sicurezza e per il segreto di Stato» a chiedere in una preoccupata relazione consegnata dal senatore Pecchioli il 3 agosto ai presidenti del Senato e della Camera, Spadolini e Napolitano, nonché al Capo del Governo Ciampi, un dibattito «non più rinviabile» per una prospettiva di riforma capace di assicurare efficienza, credibilità e trasparenza a queste delicate articolazioni dello Stato. I mutamenti che stanno avvenendo nella società civile e che si tradurranno in nuovi assetti politici ed istituzionali devono infatti realizzarsi in un quadro di assoluta sicurezza democratica che possa garantire il libero sviluppo del confronto politico. In questo senso i «Servizi» dovrebbero essere l'osservatorio più avanzato ed intelligente per comprendere, analizzare, prevedere e prevenire ogni velleità di turbative violente, destabilizzanti, reazionarie, comunque intimidatrici della volontà popolare. Un lavoro tanto più delicato e difficile nell'attuale scenario di radicali e contraddittori sconvolgimenti internazionali,

{)l.L BIANCO a-l., IL ROSSO iiikiiliii dove alla competizione dei blocchi contrapposti e della guerra fredda sta subentrado prepotentemente quella dei sotterranei e spietati conflitti tecnologici, commerciali, monetari, finanziari, lobbistici ... certo influenzabili anche e soprattutto attraverso la confusione e la violenza terroristica. Uno scenario sconvolgente e tremendo dove armi e mestatori di terrore sono oggi più che mai disponibili! Ecco perché la relazione del Comitato, dopo aver velocemente passato in rassegna taluni torbidi comportamenti di «schegge» dei Servizi (in occasione dell'omicidio Pecorelli, del caso Moro, del Supersismi, dell'inquinamento P2, dell'inchiesta Cirillo .. ) fornisce questi spunti di riflessione e proposte: - conservando l'attuale scelta del «doppio binario informativo», le attività del Sisde (sicurezza interna) e del Sismi (sicurezza esterna) dovrebbero essere più incisivamente ed autorevolmente coordinate (la vigente legge del 1977 è stata qui carente) dal Cesis, facendo sì che esso diventi un «Centro unificato di intelligence» capace di fornire al Presidente del Consiglio il più efficace supporto tecnico nelle sue funzioni esclusive di direzione e responsabilità politica per la sicurezza democratica del Paese. - Cambiare l'attuale forma di reclutamento del personale dei Sevizi, non esente peraltro da diffusi fenomeni di assunzioni familiari, introducendo criteri di selettività e trasparenza, anche mediante pubblici concorsi, idonei a garantire quegli indispensabili requisiti professionali, culturali, intellettuali e di assoluta lealtà istituzionale che tali «operatori della sicurezza democratica» non possono non possedere. - Razionalizzare, magari attraverso un accorpamento per funzioni, l'impiego di tutti quegli organismi e strutture speciali che, sovente non coordinati e talora in concorrenza con i Servizi e tra loro, operano nel settore più tipicamente investigativo e repressivo (Ros dei Carabinieri, Digos della Polizia di Stato, IV Reparto della guardia di Finanza, Sios delle tre Forze Armate). Questa potrebbe essere anche l'occasione per una riflessione più complessiva sulla tradizionale organizzazione delle diverse Forze dell'ordine (a cui si sono aggiunte recentemente la Dia e la nuova Polizia penitenziaria) costituenti l'impre14 scindibile reticolo connettivo del sistema globale «sicurezza». - Rendere più stringente e puntuale il controllo sui fondi dei Servizi mediante meccanismi che assicurino la necessaria flessibilità delle spese, ma anche la continuità e la responsabilità della gestione contabile attraverso la conservazione, opportunamente tutelata, dei relativi rendiconti. - Rendere più fluido, agibile e costruttivo, attraverso regolamentazioni rispettose delle rispettive competenze, il circuito MagistraturaComitato parlamentare e «Servizi». Ciò anche attraverso una rivisitazione del «segreto di Stato» che in ogni caso dovrebbe essere limitato a ragionevoli periodi temporali e non potrebbe mai essere opposto nel corso di procedimenti penali relativi ai «delitti di strage». - Dotare i «Servizi» di strumenti di intelligence (intercettazioni ed altre delicate attività ... ) tali da garantire l'efficacia e tempestività dell'azione informativa, ma anche da evitare la possibilità di abusi a discapito dei diritti individuali di libertà. Queste stringenti considerazioni del Comitato parlamentare; il vibrante impegno assunto dal presidente Ciampi il 2 agosto, in occasione del tredicesimo anniversario della strage ancora impunita della stazione di Bologna, dinanzi alla lapide degli 80 morti; il fatto che egli abbia assunto la diretta guida e responsabilità dei «Servizi» promuovendone la riorganizzazione; la certezza che all'interno stesso dei «Servizi» la maggioranza degli «agenti segreti» voglia riscattarsi da una non esaltante nomea liberandosi dalle «schegge» eventualmente ancora esistenti, e soprattutto il fatto che ben presto avremo politici e legislatori più vicini al popolo, lasciano ragionevolmente credere che si sia sulla via giusta per giungere infine a verità e giustizia. Questo è l'augurio di tutti gli italiani. Ah, dimenticavo: in quel vecchio articolo del '78 segnalavo la stranezza delle frettolose nomine dei direttori dei due Servizi, Sismi e Sisde, appena creati (al posto del Sid) dalla legge del '77, e che volevano essere improntati a maggiore efficienza, razionalità ed affidabilità democratica. Dopo anni la storia giudiziaria avrebbe dato la spiegazione: erano tutti iscritti alla P2.

{)!LBIANCO ~ILROSSO Islamd'Italiau:napresenza chevienedalontano di Stefano Allievi Premessa L'Islam è ormai diventato la seconda religione presente in Italia. Nel silenzio degli attori, nella distrazione degli osservatori, si è operato in pochissimi anni un cambiamento che, pur nella ancora relativamente esigua dimensione numerica, non possiamo non considerare, a suo modo, storico. L'Islam è arrivato in Italia, come in altri paesi d'Europa, chiuso nelle valigie degli immigrati. Nella modestia dei mezzi anche culturali, quindi, e in silenzio. Nient'altro che un elemento, per quanto importante, di un'identità culturale e religiosa, che chi partiva si portava con sé in terra di emigrazione. Ma un'identità che si è mostrata, nel complesso, insospettabilmente forte, anche se chi ne era portatore apparteneva alla fascia più debole e deprivata della stratificazione sociale. Un'identità che non è stata dimenticata, e che poco alla volta ha cominciato ad affacciarsi nel panorama sociale, a mostrarsi anche in pubblico. Prima nei comportamenti di singoli individui: in un uomo che prega nell'aiuola di una piazza, in una donna velata che si incontra al mercato, in un bambino per il quale, a scuola, si chiede l'esonero dall'ora di religione, o una dieta particolare a mensa. E poi nelle prime manifestazioni collettive: la festa della rottura del digiuno di ramadan celebrata in un campo sportivo, o la presenza caratterizzata dei lavoratori musulmani a una manifestazione sindacale o antirazzista - inusuale anche nelle sue forme, con l'interruzione per la preghiera che suscita talora qualche sconcerto. Infine, con l'apparizione delle prime moschee. Meno ambiziose e meno ostentatamente visibili di quella romana di Mon15 te Antenne, ma in compenso disseminate un po' su tutto il territorio nazionale. L'Islam d'Italia è ancora molto poco conosciuto. Il fenomeno è in effetti molto recente - uno statu nascenti. Lo stesso ciclo migratorio italiano è stato, e in parte è ancora, molto diverso da quello che hanno vissuto i paesi del centro e del nord Europa. Non si può dimenticare che l'Italia era ancora, praticamente fino a venti anni fa, un paese esportatore di manodopera: il turning point, per limitarsi agli italiani, cioè l'anno in cui per la prima volta i rientri hanno superato le partenze di emigranti, è stato per l'appunto il 1973. E i flussi migratori principali, quelli che ci hanno davvero portato a convivere con delle minoranze non trascurabili di stranieri provenienti da svariati paesi in via di sviluppo (extracomunitari come li definisce un gergo impreciso e falsamente rispettoso; ma anche l'espressione «in via di sviluppo» non è del resto che un ipocrita eufemismo), sono ancora più recenti. La vera immigrazione, in fondo, l'immigrazione come fatto sociale visibile, ha poco più di un decennio. Se diverso è il ciclo migratorio, non meno diverso è quello che potremmo definire ciclo musulmano, ricavabile al suo interno. L'Islam infatti arriva in Italia proprio a seguito dell'immigrazione. Non c'è una tradizione di rapporti coloniali o neo-coloniali con paesi islamici, simili a quelli intercorsi tra la Francia e l'Algeria (la cui indipendenza risale solamente al 1962) o tra la Gran Bretagna e i paesi dell'eximpero e oggi Commowealth britannico. Né c'è una presenza islamica come quella che data oltre un secolo negli eserciti di vari paesi europei, dalla Francia di Napoleone alla Prussia di Federico il Grande (e in questo caso i secoli

{)!LBIANCO """-ILROSSO t+ii•i+ilit+i sono addirittura due). Una presenza mai ricordata, certo numericamente modesta, ma che ha dato luogo proprio ad alcune delle prime moschee in territorio europeo nell'epoca moderna: da quella di Berlino (1866) e quella di Parigi (1926), esplicitamente voluta come un ringraziamento della patria francese ai suoi sudditi (tali erano considerati) musulmani caduti nella prima guerra mondiale. Per inciso, qualcuno di questi sudditi musulmani della Francia ha combattuto ed è morto anche nelle battaglie del Risorgimento italiano: Solferino, Magenta ... In Italia questo passato non c'è. L'unico rapporto di qualche importanza si è avuto nel periodo del Mussolini portatore della «spada dell'Islam» (ricevuta in dono a Tripoli, nel 1937, da alcuni capi indigeni, non proprio in assoluta spontaneità) e di un'Italia definita dal Duce dieci anni prima non solo «amica del mondo islamico», ma addirittura una «grande potenza musulmana». Tuttavia, a differenza di altri paesi europei, tale politica è stata più dichiarata che praticata, ed il rapporto con i musulmani è risultato molto meno «organico», tanto che non ha avuto continuità di sorta, tanto meno nel periodo post-bellico. L'Islam non fa parte, dunque, neanche alla lontana, del paesaggio e del bagaglio culturale dell'italiano medio. 16 Il ritorno dell'Islam Eppure la presenza dell'Islam non è una novità assoluta per l'Italia. Al contrario, dal punto di vista storico, si tratta piuttosto di un ritorno 1 . L'Islam si è in effetti, per un certo periodo, ben radicato in un certo numero di regioni del paese. In Sicilia la presenza musulmana è cominciata con l'inizio stesso della storia dell'Islam. La prima «visita»di saraceni documentata risale al 652. E la conquista dell'isola, cominciata con lo sbarco a Mazara nell'827, sarà completata nel 902 con la caduta di Taormina; anche se Palermo («la città delle trecento moschee» come l'avrebbe chiamata un viaggiatore arabo dell'epoca normanna, Ibn Hawqal) e la maggior parte delle altre città sarà occupata nella prima metà del nono secolo. La presenza islamica è documentata tuttavia anche in altre regioni. Sia nel Sud della penisola, con l'esperienza dell'Emirato di Bari, tra le altre, sia nel Nord: tracce di presenza islamica, e persino di moschee, sono individuabili in forme diverse in varie regioni, dalla Val d'Aosta alla Liguria, dalla Sardegna alla Toscana, e in differenti epoche - talvolta fino al XVIIIsecolo. Labili tracce, tuttavia. Che non stupisce abbiano avuto poco posto nella nostra memoria. Le si stanno riscoprendo solo ora, non a caso in coincidenza con la presenza di un nuovo Islam.

D!LBIANCO ~ILROSSO iiiiidliti Nuovo: perché se dal punto di vista storico si tratta di un ritorno, dal punto di vista sociologico il fenomeno è evidentemente molto diverso, e i nuovi musulmani non assomigliano per nulla agli orgogliosi dominatori kalbiti della Sicilia. Il loro Islam non è arrivato sulla punta della spada ma, come si è già ricordato, nelle loro valigie di immigrati. Un Islam più povero, dunque, anche culturalmente, e in apparenza meno forte; ma, nel lungo periodo, certamente più resistente. Non scomparirà nei sotterranei della storia, scacciato (ma in parte anche assorbito) dal conquistatore normanno. A meno di sconvolgimenti sociali che è bene non augurarsi, perché non potrebbero essere che l'esito saguinoso di una tragedia - la Bosnia insegna - questo Islam è venuto per rimanere. Ma l'Islam di domani non sarà l'Islam di ieri, come non sarà quello di oggi: è destinato, in certa misura, a cambiare esso stesso - con il volgere delle generazioni, se non delle stagioni. Non si resta in Europa, e in situazione minoritaria, senza conseguenze. Particolarmente per l'Islam, abituato a concepirsi e a concettualizzarsi solo come maggioranza. Ma ci saranno conseguenze anche nell'altra direzione, evidentemente. E, in parte, sono già visibili. Quasi trecentomila immigrati regolari provenienti da paesi musulmani, forse cinquecentomila calcolando anche i clandestini che non siano puri Birds of passage, decine e decine di moschee in tumultuoso divenire, una cultura religiosa fatta di luoghi di culto e di esigenze pratiche molto concrete, di ordini sufi e di produzione intellettuale ormai abbastanza vivace, nonché di immigrati ma anche di convertiti e dinaturalizzati, e quindi di cittadini italiani a pieno titolo non si manifesta senza lasciare traccia, anch~ nello spazio pubblico. È un intero mondo che ormai si fa presente a un'attonita e, come sempre, impreparata opinione pubblica. Eppure il fenomeno non è che fosse poi così inconcepibile. Bastava guardarsi intorno: a Nord delle nostre frontiere, per quanto accadeva nei paesi europei di più antica immigrazione. E a Sud, naturalmente: per motivi demografici come economici e culturali, di cui tutto si può dire, tranne che fossero imprevedibili. 17 Conclusioni Un fenomeno sociale, e l'Islam è incontestabilmente anche un fenomeno sociale, se non è ben definito e stabilizzato al suo interno, non può che dare un'immagine di sé che è essa stessa, a sua volta, indefinita. D'altro canto anche la sua percezione, influenzata dalla povertà di informazioni, o talvolta dalla poca voglia di cercarle, produce il medesimo effetto di indefinitezza. La novità del fenomeno aumenta poi la difficoltà di messa a fuoco. Iniine il suo stesso contenuto intrinseco, basato su presupposti culturali e potremmo dire antropologici talvolta abbastanza diversi da quelli che hanno marcato l'evoluzione del mondo occidentale, non facilita la comprensione e tanto meno la classificazione. Va poi considerato il ruolo giocato da pre-giudizi ed equivoci voluti, da fraintendimenti e da interpretazioni malevole: che nascono talvolta sui libri di testo e sui banchi di scuola, e che proseguono amplificati nei mass media. L'Islam, tutto sommato, è ancora percepito come qualcosa di proveniente dall'esterno (dall'Iran, dalla Libia, dall'Algeria ... ). La scoperta di un Islam autoctono, se così si può dire, è assai recente, e per quanto riguarda i mass media italiani la si può far risalire, grosso modo e con qualche eccezione, alla guerra del Golfo: un contesto non dei più favorevoli per la comprensione calma e pacata di un fenomeno che merita di essere analizzato in sé, e non per le sue conseguenze su tale o talaltra situazione. Soprattutto, dobbiamo abituarci a considerare l'Islam, oramai, come un fenomeno interno al mondo occidentale: l'Islam è oggi un prezzo d'Europa (e d'America, e d'altrove). Politica interna, non più politica estera. Un pezzo della nuova cultura occidentale in via di faticosa costruzione, e di assai difficile autocomprensione di sé e del proprio ruolo. Nota 1 Ed è proprio a partire da questo richiamo storico, ma facendo eco anche a suggestioni contemporanee, che Felice Dassetto ed io abbiamo scelto di titolare la nostra ricerca sui musulmani in Italia, per l'appunto, Il ritorno dell'Islam (Edizioni Lavoro, 1993).

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