Il Bianco & il Rosso - anno IV - n. 43/44 - ago./set. 1993

letto: è uno dei problemi delle presentazioni perché tutti presu - mono che gli altri lo abbiano letto). La scommessa è nell'ultimo capitolo, dove c'è una proposta della democrazia: che chiamerei la democrazia desiderabile, alla luce dei criteri che Rotelli sostiene e argomenta. La proposta, ovviamente, non riduce il ridisegno delle regole alla questione elettorale (come è già emerso dall'intervento del collega Cossiga), ma la inquadra nel ridisegno dell'ordinamento e quindi nel ridisegno istituzionale. È uno dei punti essenziali di tutto il libro. Fa parte dei colpi di sciabola o, se preferite, di fioretto indirizzati alla dimensione non solo degli anni Ottanta, ma a ben prima. Molti cadono sul campo per la confusione sistematica fra i due termini cruciali, che sono in gioco al centro del libro di Rotelli. Il fuoco è questo: esiste (si riferisce e ci riferiamo all'Italia, ma sarebbe interessante un'analisi comparata, là dove il nostro è comparabile con gli altri regimi democratici) una crisi endemica del rapporto fra struttura e funzionamento del sistema politico da un lato e il regime costituzionale del- !' altro. Se vi è una crisi fra questi due elementi, ciò che Rotelli critica, ciò su cui gioca il. suo «pari» alla Pascal nell'ultima parte (con un progetto istituzionale e quindi di revisione costituzionale), è il fatto che la discussione non ha mai distinto, per differenti ragioni, in generale per ragioni di partito, fra coloro che si impegnavano in discipline differenti. Mi riferisco a quelli cui si riferiva Martinotti prima: i sociologi piuttosto che gli economisti - per i quali c'è un'ottima serie di critiche - piuttosto che gli scienziati politici. Ecco, il {'!LBIANCO ~ILROSSO i-11;1MNIM punto fondamentale: non avere mai distinto, per ragioni di partito. Questa è la critica di fondo di Rotelli. Non è così strano. Tutti coloro che si sono impegnati in questa discussione lo hanno fatto sullo sfondo di quel sistema bloccato cui accennava Cossiga. C'è il giurista, c'è il costituzionalista, così come c'è il sociologo, c'è lo scienziato politico: ci sono anche i filosofi (non voglio togliermi di mezzo); che in qualche modo, per un lungo periodo della storia italiana, continuamente hanno giocato un ruolo sui due mercati, il mercato del riconoscimento scientifico (molto debole, in genere) e il mercato del riconoscimento politico, in rapporto agli attori politici di riferimento. Questo è un dato del passato. Può piacere o meno. Ma è alle nostre spalle. Spero che la pianti di essere un dato del futuro. Tuttavia c'è stata per me una sorpresa. Spunto una lancia come filosofo analitico. Leggendo attentamente il libro (ho scoperto il sistema australiano, assai affascinante: ci sono molte cose affascinanti in questo libro), mi è venuto - non essendo io uno storicista - di fare un elogio della storia o della storia a senso unico. Mi sembra, in fondo, un modo per riformulare la questione che poneva Martinotti, se l'ho capita bene. Cioè: una volta operata questa terapia e pulizia concettuale, questa grammatica cui accennava Cossiga (credo sia un merito straordinario del libro: fare pulizia linguistica), resta .il fatto di quanto possiamo (o meno) sottovalutare le vischiosità, le particolari circostanze, i contesti, le storie che stanno alle spalle. C'è il problema della cultura politica. È il problema, se volete, di Hume. È il problema, come dire, non tanto del costruttivismo 64 cartesiano delle norme, delle geometrie, quanto dell'insorgenza delle norme. Non faccio un elogio di Burke. Ma che progettare istituzioni, una cosa che a me piace molto fare dal punto di vista filosofico-normativo, debba prendere sul serio, sistematicamente, le circostanze di contorno, che in genere sono eredità del passato, questa è veramente una delle questioni. Ad esempio, vi è una domanda ricorrente. Intanto c'è una tesi, peraltro del tutto filosofica e normativa, in senso non giuridico, nel libro (per come l'ho letto). Ed è una tesi rilevante. Da Aristotele in poi è il problema della politica, che non riguarda il vivere, ma, come diceva Aristotele, il vivere bene: è lo scopo della polis, non è Zen. Ora, la tesi centrale normativa in senso non giuridico di Rotelli è che sia preferibile la stabilità degli esecutivi alla instabilità degli stessi (ovviamente in regimi democratici: il che fa pulizia di tutti i pasticci e le chiacchiere). È preferibile perché si può correlare alla stabilità una maggiore efficienza ed efficacia nel generare politiche pubbliche. E ciò è un bene, non semplicemente per chi ha interesse alla politica, per chi fa politica, ma in quanto incide e genera effetti sulle prospettive di vita dei governati. È un'assunzione di valore perché ci dà il fine (d' accordo?). Ma il punto è se assumiamo· questo. Secondo Rotelli, dal punto di vista dei sistemi politici, non del- !' ordinamento istituzionale, possiamo classificarli semplicemente fra bipolari e multipolari (o non bipolari), con la spiegazione che Cossiga riferiva al bipolarismo falso, in cui uno dei due poli non è legittimato e percepito come tale (di cui non ci si schioda). Il sistema bipolare - questa è la questio-

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