{)!L BIANCO W,,ILROSSO •IN•lr\11~••• È legittimo trarne qualche indicazione sull'Italia di oggi? Intanto i più scettici sull'uso della musica nelle ricostruzioni storiche possono leggere, per ricredersi, un bel libro appena uscito, «Il valzer» di Rémy Hess (Einaudi), che in quasi 400 pagine spiega la «rivoluzione» portata dalla Rivoluzione francese e dalle truppe napoleoniche, col conseguente sconvolgimento dell'idea di coppia e le ire della Chiesa cattolica; oppure la travagliata storia di rapporti tra nazisti e musica jazz (musica di selvaggi. .. ) nel volume di Mike Zwerin «Musica degenerata» (Edt.). Fatte le debite proporzioni, giochiamo a «capire» il karaoke. Alzare la voce. Se non si strilla nel karaoke finisce il gusto. Sarà che la canzone all'italiana ha sempre un ritornello che va in sù, oppure è tutta un crescendo alla Cacciante. Comunque anche la canzone più depressiva impone di farsi sentire. Non ce lo insegnano tutti i giorni anche Bossi e Sgarbi? Non trovate grandi affinità con le «masse» a cui apre le porte l'èquipe di Santoro, pur di non concludere mai in' un qualche modo una qualche discussione? Cambiare la voce. Sono io a cantare, ma mi devo confrontare con la voce originale. Se sono furbo, evito di imitarla e rischio meno. Però quella voce l'abbiamo tutti in testa. È il vero filo conduttore. Stiamo riproponendo una «versione» conosciuta collettivamente. Questa «seconda voce» azzera le nostre concrete differenze sociali, o d'età. Ricalcarla o variare? Il karaoke come sperimentazione del rapporto tra antico e nuovo, fragile palestra per le nostre inadeguatezze e precarietà. Esibirsi nel clan. I fischi contano poco o nulla. Chi si esibisce nel karaoke conta su una complicità sotterranea. Essere come gli altri, nel bene e nel male, proprio mentre si sfiora il ruolo della «celebrità» irraggiungibile. Fuggire le di55 versità, grazie alla confidenza di una propria tribù, magari costruita quella sera sul molo estivo e domani svanita. Metafora del tribalismo che connota anche la fase politica, ognuno a cercare consensi salottieri o campanilistici, anziché tentare sintesi o musiche nuove. Rinverdire il passato. Gli arrangiamenti delle basi karaoke sono tutti uguali, fatti in studio da una sola persona e molti suoni elettronici. Poco le musiche di questi anni, tolti i successi del momento. Meglio gli anni 60 o certi evergreen che hanno superato il vaglio delle generazioni. Canzoni trasmesse di fratello in fratello. Battisti,su tutti. Cantarci su. Un segnale comunque di ottimismo, di voglia di guardare avanti. Meglio dei fischiettii dei «Ladri di biciclette» o dei brontolii negli uffici visti ingrigire ogni giorno per mancanza di idee imprenditoriali. Oltre tutto, non costa niente, nè a chi si cimenta nel karaoke, nè (soprattutto) al gestore del locale. Ideale per tempi di ristrettezze. Con un buco nero: le parole non le sappiamo più. Smozzichiamo la frase ad effetto («Trottolino amoroso, du-du-du-da-da-da»), o gridiamo il titolone arcinoto («Femmena, tu si na malafemmena»). Ma senza il rullo, la macchina karaoke, l'audiovisivo, il gioco non potrebbe neanche scattare. Impareremo ora a tenere più memoria del presente? Aguzzeremo la vista e non solo l'orecchio? Il karaoke è il'trionfo di un discorso che si è interrotto. Poco contava il suo senso, allora. Forse è già positivo volerlo replicare. Domani ci verranno le parole nuove, o almeno il disincanto dell'eterna parodia (ricordate i partigiani che trasformavano i canti fascisti?). E - chissà - poco più in là ci verrà la voglia di rischiare di più e qualcuno riuscirà di nuovo a «cantare» questi anni di trasformazione, ma così poco ancora raccontabili.
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