Il Bianco & il Rosso - anno IV - n. 43/44 - ago./set. 1993

{)!LBIANCO W.ILROSSO 1~1• ,a ì\lH~••• «Riprendiamolcaiparola». L'Italidaelkaraoke di Paolo Giammarroni T ra le tante immagini usate attorno alla riscossa degli «ultimi», la vocalità ha sempre avuto un preciso fascino. Come illustrare la voglia di democrazia diretta e partecipazione, meglio che con un «Riprendere la parola»? E come sintetizzare la bontà delle intenzioni di un movimento collettivo progressista se non con l'intenzione di «dare voce» a qualcuno a cui è stata tolta? Il biennio travagliatissimo 92-93 potrebbe essere ricordato dagli storici anche per un piccolo, mediocre, effimero fenomeno di costume, che dà forma espressiva ad un ritorno alla ribalta del cittadino medio. Per i più distratti il «karaoke» è un semplice gioco individuale, ma davanti ad un pubblico complice. Su un monitor passano i testi di una nota canzone, con un aiuto visivo per azzeccare gli «attacchi»: e posso esibirmi dal microfono e improvvisare gare canore più o meno sgangherate e divertenti. Il fenomeno c'è. Nato su scala industriale in Giappone, era destinato alle sole discoteche, con un costoso impianto ad alta fedeltà. Dietro possiamo vederci il «bisogno» nipponico di fuga dai propri modelli culturali tradizionali. Così un popolo che non sa parlare affatto l'inglese, si cimentava prevalentemente nel repertorio d'Oltre oceano (Pacifico) capace di produrre vere star internazionali, latenti nell'arcipelago. In Europa l'idea è piaciuta, ma ha acquisito tratti di massa. A fronte del crollo del mercato discografico basato sulle novìtà e sull'acquisto giovanile, ci si è lanciati nell'assecondare la voglia di rispolverare la canzone «nota» e cantarci su. C'è il karaoke per bambini: un registratore a 54 cassette molto semplice, con un microfono a basso volume, per uso domestico. C'è il karaoke per comitive di ragazzi: in edicola si trovano accoppiate la cassetta con la base e il Vhs col proprio idolo (meglio se cantautore come Baglioni e VascoRossi)su cui urlare in coro. C'è anche un karaoke·per amanti della lirica, più avanti con l'età. Anche loro possono scegliersi l'aria preferita e gareggiarci su, prima o dopo aver fatto la barba. Lo so: non è esattamente quello che intendevamo dire - da politici - con l'augurio di un «riprendersi la parola». Eppure qualcosa vuol dire anche questo fenomeno. Intanto è un fenomeno interamente· laico. La sottolineatura è importante, perché strumenti di indottrinamento collettivo tramite il canto nascono da lontano, negli Usa e in ambito di chiese protestanti. Su un telo si proiettava il testo e il predicatore con un segnale luminoso (una palletta, più tardi) rimbalzava sui punti dove far cadere l'accento. Oggi se esistono cori svogliati, pigri, senza passione, è proprio nelle nostre chiese cattoliche. Aldilà di un discutibile aggiornamento del repertorio, non a caso sradicato dalle nostre «vocalità» contadine e vicino per gusto ad un «esangue» gospel bianco, la chiesa non è più un luogo di espressione artistica collettiva. Nel «karaoke» non si canta niente, a livello di messaggio esplicito. Non c'è nulla da celebrare o glorificare. Il repertorio non ha limiti teorici, ben piantato però sulla vena sentimentale-amatoria passionale propria del nostro canzonettismo. Il massimo del trasgressivo concesso sono le candide «We are the children» o similari, buone anche come colonna sonora per la Coca Cola. Le famiglie possono dunque stare tranquille.

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