Il Bianco & il Rosso - anno IV - n. 43/44 - ago./set. 1993

surde ed anacronistiche ed andavano perciò eliminate anche perché bloccavano l'accesso a coloro che possono lavorare, ma solo a determinate condizioni. Mentre la flessibilità incontrollata, per sua natura, più che occupazione ·produce una diminuzione delle retribuzioni. Per affrontare positivamente il problema del lavoro bisogna quindi ricercare nuove strade ed attivare nuovi strumenti. Innazi tutto il lavoro non può restare un obiettivo residuale, ma deve essere assunto come discriminante nella politica economica. Le politiche pubbliche vanno cioè valutate e verificate in ordine alla loro capacità di accrescere occupazione. In secondo luogo la ,gestione del mercato del lavoro deve fondarsi su una strategia di valorizzazione delle risorse umane. Questo significa: innalzamento dell'età scolare; lotta alla dispersione scolastica; formazione per l'intero arco della vita lavorativa; riqualificazione continua in diretto rapporto alle trasformazioni tecnologiche, alla organizzazione del lavoro ed alle situazioni di crisi per agevolare il passaggio da una occupazione ad un'altra. Si tratta di misure importanti per correggere l'attuale inaccettabile stato di cose. Non bisogna infatti dimenticare che l'esercito dei disoccupati non è formato da persone che entrano ed escono dal mercato del lavoro. La disoccupazione è piuttosto il punto terminale di un processo di emarginazione. Quasi il 50 per cento dei disoccupati lo sono da più di 12 mesi. Con il passare del tempo diminuisce la loro possibilità di essere reimpiegati e l'intensità con cui ricercano un lavoro. I costi umani e sociali di questa situazione tendono perciò a diventare dirompenti. Chi perde il posto di lavoro rappresenta un patrimonio di competenze che la società non dovrebbe -sprecare. Il massimo di risorse va quindi-dedicato ai programmi di riqualificazione. Ma perché questi producano i risultati attesi è necessaria una decisa sburocratizzazione delD!LBIANCO a!LILROSSO • u•~-m I a ; 1 le strutture attualmente preposte, così come appare necessaria una contemporanea diretta assunzione di responsabilità delle parti sociali. Infine si devono ridurre gli orari per consentire una redistribuzione del lavoro. Il tema della riduzione della durata del lavoro e della sua redistribuzione ha occupato moltissimo, negli anni scorsi, sia gli analisti delle politiche di promozione del lavoro, sia i commentatori della crisi dello Stato sociale, che, infine, gli interpreti della società post industriale, o dell'informazione. Malgrado anche in sede comunitaria la riduzione degli orari e la ripartizione del lavoro sia stata oggetto di proposte (sindacali) e di studi (da 28 parte della Commissione) i risultati sono stati finora assai deludenti. Non solo non c'è stato in nessun paese europeo alcun sostanziale mutamento del modello di organizzazione e di durata del lavoro (salvo casi marginali e poco significativi), ma anche nella grande discussione per l'Europa sociale la questione della riduzione degli orari e della ripartizione del lavoro è sembrata oggetto di un accantonamento prudente, una sorta di congelamento in vista di tempi migliori. Invece questo resta un passaggio decisivo per rispondere alle esigenze di occupazione. Non si deve dimenticare che, malgrado l'enorme aumento di produttività registràto nei paesi industrializzati nell'ultimo trentennio, la durata media del lavoro è rimasta pressoché invariata. Se si continuasse ad accettare (o a subire) questa assimetria le conseguenze diventeranno sempre più incontrollabili. Perché si finirebbe con il lasciare a un sempre più ristretto numero di occupati a pieno tempo il compito di sostenere i consumi materiali di un numero sempre più grande di persone inoccupate. In questo squilibrio c'è anche una delle ragioni profonde della crisi economica dello Stato sociale. Crisi che non può essere in alcun modo risolta se continuasse la tendenza a ridurr'e il numero dei contribuenti con il contemporaneo aumento del numero dei destinatari di prestazioni assistenziali. Si possono capire tutti i dubbi e le resistenze, che hanno finora ostacolato una decisa iniziativa sul tema degli orari, ma siamo ormai arrivati ad un punto che dubbi e perplessità rischiano di non essere altro che un alibi per sottrarsi alle responsabilità. Si deve infatti sapere che se il progresso economico non si trasforma in parallelo progresso sociale, se lascia irrisolti squilibri come quello fra Nord e Sud, fra occupati e disoccupati, fra protetti ed emarginati, non si garantisce la società dai rischi sempre più acuti di disgregazione.

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