Il Bianco & il Rosso - anno IV - n. 41/42 - giu./lug. 1993

non possono che essere uomini della speranza. La Pira diceva: venditori di speranza. Ovvero uomini dell'utopia «tecnicamente fondata», secondo la felice espressione di Leonardo Benevolo. Allora è possibile tornare alle categorie di Martin Lulher King e di Bob Kennedy, o se si vuole di Moltmann e Gulierrez. Ma suscitare speranza in un pianeta senza troppe ragioni di speranza e con duri guadi di disperazione (il feroce olocausto bosniaco dove è staia sepolta la pietà, la tolleranza, il dialogo inler-religioso europeo, la convivenza Ira i popoli nella totale impotenza dei governi; il divario Nord/Sud; la cosificazione della persona umana; il cinismo della società dei due terzi; la devastazione ecologica del pianeta; il fondamentalismo religioso ... ) diventa una scelta di responsabilità. Distribuire speranza senza etica della responsabilità è gravissima incoscienza, è delitto politico. «Nessuna speranza - ha scritto Italo Mancini - è un toccasana, una formula per soffrire di meno o per sanare con una bacchetta magica le ingiustizie. La speranza guarda al domani assumendosi le responsabilità dell'oggi». Per questo non è il sentiero del populismo o dei buoni sentimenti o - peggio - della solidarietà a buon mercato, la strada maestra dei costruttori di speranza politica. Quello che colpisce oggi rileggendo Ghandi o Martin Luther King o Bob Kennedy, o Dossetti, è la fusione tra ethos e razionalità politica, tra speranza e concretezza degli obiettivi conseguibili, Ira utopia e cultura di governo, tra «rivoluzione» e realismo. Il «sogno», dunque (I have a dream), deve sorreggere la progettualità politica, non solo a livello simbolico o di comunicazione di massa, ma deve possedere percorsi di piccole, progressive, «utopie tecnicamente fondale». Questa è la speranza politica non come metafora letteraria, o comunicazioneimbroglio. Per sogni (l'abolizione della schiavitù, la proclamazione dei diritti dell'uomo, le libertà di associazione, la pace, la cooperazione interna- {)!LBIANCO 0L.ILROSSO I u,;.-s, I a il D. e V. Burljuk Vladimir Majakovskij, Tragedia (1913) zionale, la tolleranza, lo «stato sociale», l'abolizione della pena di morte, la liberazione della dittatura, dall'oppressione ... ), Spes contra spem, si è mossa e si muove l'umanità, ma sogni inverati in percorsi politico-istituzionali. Per i cristiani (cattolici e protestanti) essere uomini di speranza, e in particolare di speranza politica, significa dunque essere uomini di programma, di progetto, senza fuga dall'assunzione di responsabilità oggi, coscienti della Croce, cioè della prova, della sconfitta, del passaggio attraverso la condizione di minoranza per esempio sulla pace, la giustizia, la difesa ostinata della dignità umana e del senso di ogni vita) senza l'arroganza della minoranza assediata ma, al contrario, nella fedeltà ai dannati della terra, ai poveri e agli ultimi, con la cultura del governo degli avvenimenti e dunque delle allenze. Si può essere sconfitti ma non si può coltivare la cultura della sconfitta perchè la «buona battaglia» non è «nostra» proprietà privata. L'assenza di speranza (e delle utopie tecnicamente fondale) è il limite delle molte esperienze del «nuovo» e della genericità del «nuovo» che è emerso in Italia sulle macerie di una società politica autoreferenziale. La pacifica rivoluzione italiana per arrivare in porlo senza generare arretramenti, torbide resistenze, qualunquismi peronisti (la Lega Nord), o sindro80 mi della delusione, deve inverarsi in una rivoluzione morale e dei comportamenti pratici che esige «uomini nuovi» dalle «virtù provale», cioè vissute, sofferte, pagate di persona. Solo così si potrà tornare ad annunciare speranza fondata non sull'ottimismodella volontà o peggio sull'ottimismodella cultura degli spot, della comunicazione di massa. Del resto la speranza «relativizza nella prospettiva del provvisorio tutte le mete raggiunte dall'uomo nella storia, scoprendovi l'insuperabile dimensione del penultimo. Non può dichiararsi soddisfatta di nessuna, ma cammina sempre in avanti in cerca del nuovo e del migliore, sempre in uno stato di esodo verso il compimento futuro delle promessa», scrive Juan Alfaro. È lo stesso concetto del «principio di non appagamento»formulato da Aldo Moro. Dunque la speranza virtù anti-idolatrica, anti-conservalrice, anlinomenclatura, anti-apparalo, per la politica. Speranza non come sentimento zuccheroso o curativo, o «entusiasmante», o come espediente per la cattura del consenso. Tanto meno come categoria astratta, «ideologica», a giustificazione della doppia morale, del doppio binario idealismo-pragmatismo, valori-praticità, che è stato l'imbroglio di ogni doroteismo; la giustificazione di ogni abuso e occupazione del potere; di ogni schizofrenia tra richiamo ai valori e agire politico concreto; di ogni copertura per la conservazione autoriprodultiva di affari, prevaricazioni, tangenti, gruppi, caste e celo politico di bassa cucina abituato ad usare con spregiudicata simonìa e ricatto l'universo simbolico e la proclamazione astratta d'identità. Per questo, giustamente, Italo Mancini preferisce ai sostantivi, dunque alla «speranza», i verbi, dunque «sperare». «Il cristiano, se è come Gesù, sarà riconosciuto, dunque, dai gesti e in particolare da gesti di condivisione. Il pane spezzato sarà il suo segno-sacramento: pane, lavoro, casa, più che impalpabili affetti. Molto più, senza dubbio, delle sigle, delle etichette, degli aggettivi «cristiani» profusi accanto non a verbi, ma a sostantivi di non condivisione».

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==