Il Bianco & il Rosso - anno IV - n. 41/42 - giu./lug. 1993

{)!LBIANCO ~ILROSSO •11•7--sJ•H;I Politicae speranza:unbinomio laceratodaricomporre A bbiamo appena ricordato i trent'anni della «Pacem in terris» e della morte di Papa Giovanni, i 25 anni dagli omicidi politici di Martin Luther King e Bob Kennedy. Nessuna stagione fu, come quella degli anni '60, una età della speranza. Il Concilio, la nuova frontiera kennedyana, il Disgelo sovietico, il sogno della nonviolenza, l'annuncio di «tempi nuovi», di una svolta che, allora, sembrava inarrestabile. Ci fu persino un filone teologico tedesco ed europeo, (che precorse la «teologia della liberazione» latino-americana) che si chiamò «teologia della speranza» (Moltmann). Mai, come in quegli anni fu profondo il nesso politica-speranza. Fino ad una sovraesposizione di questo nesso. Fino all'eccesso esuberante di utopismo, romanticismo neo-ideologico: ultimi bagliori romantici di ésprit révoloutionnaire. E forse proprio questa sovraespos1z1one, quella esasperazione, finì per essere controproducente perché espose una generazione, ed un periodo, alla dimenticanza dei poteri reali, dei percorsi istituzionali, della analisi del mercato, e persino ad una concezione ingenua e naive della complessità sociale, della razionalità politica, dei rapporti di forza economici e, ancora di più, addirittura della condizione umana. Quelle speranze, insieme religiose, ecclesiali, politiche, culturali, fondate forse frettolosamente su sogni palingenetici o di metanoia universale (per i cristiani) o sul mito e la mistica della rivoluzione inarrestabile (per i di Paolo Giuntella neo-marxisti), furono rapidamente stroncale. Gli assassinii politici dei due Kennedy e di Luther King, la repressione della Primavera di Praga, l'involuzione violenta e settaria del '68 aprirono anni di restaurazione in Occidente ed anni torbidi e macchiali di sangue in Italia. Consumato tutto il calice del realismo politico, della deregulation, del cinismo, della «sindrome della delusione» (Hirshmann), degli anni '70 in coincidenza con la prima grande crisi diffusa (cioè di massa) del sistema delle grandi ideologie del Novecento; un momento di grande rinascita del nesso politica-speranza, fu la caduta del Muro di Berlino, l'ascesa di Gorbaciov, il tramonto del comunismo realizzato, il trionfo di Solidarnosc, le indimenticabili serate di Berlino Est, di Praga ... Ma fu, appunto, lo spazio di un sorriso, una stagione effimera. Oggi facciamo i conii con una Europa orientale devastata dai nazionalismi, divorata dalla fame, governata da coalizioni instabili, mentre si è scoperto il «Muro d'Occidente»: gli apparati, le nomenclature, la democrazia pietrificata delle oligarchie di partito autoreferenziali e autoriproduttive, la cosiddetta rivincita del capitalismo appare fragile e più «ideologica» che portatrice di progetti e speranze politiche, di itinerari di liberazione. Due anni fa, nel 1991, una delle intelligenze più incisive e stimolanti della sinistra democratica occidentale, Andrè Gorz, nella post-fazione al suo prezioso breve saggio Metamorfosi del lavoro, critica della ragione economica (Bollati-Boringhieri, Torino, 1992) 78 scriveva che «non è l'opposizione Ira la destra e la sinistra che perde pertinenza, ma l'opposizione (nei mezzi della comunicazione di massa; nella politica quotidiana) tra gli apparati politici che si richiamano all'una e all'altra. La frontiera reale tra sinistra e destra passa dunque sempre meno tra tali apparati. Passa piuttosto tra i partili che occupano il primo piano della scena istituzionale, da una parie, e i movimenti che sorgono ai loro margini e li contestano dall'altra ... Prima o poi le organizzazioni politiche costituite cadranno nel discredito, a meno che non riescano a integrare, rinnovandosi, i temi grazie ai quali sono scavalcate da nuovi attori sociali». Non è una incredibile, esattissima, profezia di quello che sarebbe accaduto in Italia dal 5 aprile 1992al 6 giugno 1993? È esattamente (al di là del fattore scatenante di Tangentopoli e della questione morale) quello che è accaduto in Italia. Ma, per tornare al rapporto politica e speranza, i nuovi attori sociali (la stessa Lega è un «fattore sociale» che ha assunto dimensioni politiche) sono portatori di speranza o sono soltanto contenitori di rabbia, di liberazione dalla logica dello scambio, di protesta, poli di inveramento della domanda di «discontinuità», più che di nuova cittadinanza, nuovo progetto politico? In realtà nel pre-politico, nel volontariato (soprattutto quello non convenzionalo), nell'associazionismo (non legato a processi di scambio con la società politica e i partiti), tra gli obiettori di coscienza, nei gruppi giovanili parrocchiali, nella «sinistra sommer-

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