squilibri, tensioni, coinvolgenti in misura tanto maggiore i paesi sviluppati quanto più saranno incapaci di perseguire strategie di integrazione/cooperazione tra di loro e nei rapporti con i paesi in via di sviluppo. È opportuno aggiungere che, in assenza di movimenti migratori di massa dai paesi con tassi di natalità più elevata verso i paesi sviluppati, la popolazione in questi paesi registrerà un progressivo rimarchevole invecchiamento (la popolazione con più di 65 anni di età potrà raggiungere e superare il quarto in vari paesi industrializzati, compresa l'Italia) con notevoli problemi interni su piano economico, sociale e politico. D'altronde, una strategia di sviluppo nel mondo non può prescindere da rilevanti movimenti migratori dai paesi in via di sviluppo verso i paesi sviluppati. La seconda ipotesi menzionata sopra (alla fine dei sessanta anni tra il 1990 ed il 2050 almeno un miliardo di persone sia presente in paesi sviluppati anziché negli altri) assume che la popolazione in numerosi paesi in via di sviluppo sia nel 2050, grazie agli effetti diretti ed indiretti dell'emigrazione, circa un decimo minore di quella che risulterebbe dal movimento naturale, mentre la popolazione dei paesi sviluppati sarebbe di oltre due terzi maggiore di quella prevedibile in base al movimento naturale. In tal caso, il processo di invecchiamento della popolazione nei paesi sviluppati sarebbe meno accentuato, ma nel corso dei prossimi sessanta anni potrebbero emergere notevolissimi problemi di squilibri economico e sociale, con ripercussioni politiche anche traumatiche (come insegnano le esperienze recenti in Europa) sia sul piano interno che sul piano internazionale. A scopo illustrativo, fissiamo l'attenzione sull'esempio italiano. Una partecipazione proporzionale dell'Italia all'ipotesi di immigrazione netta menzionata per l'insieme dei paesi industrializzati comporterebbe nel 2050 una popolazione presente di oltre 80 milioni di abitanti anziché i circa 50 milioni attesi sulla base del movimento naturale previsto. Ciò significa che, tenuto conto di quanto è già avvenuto i>!LBIANCO Oil, ILROSSO • 11•~1#J • a ;J F. Revueltas Motivo astratto (in misura molto modesta finora, in termini relativi alla popolazione totale), circa il 40% della popolazione italiana tra sessanta anni potrebbe essere rappresentata da immigrati o da figli e nipoti di immigrati, con una probabile concentrazione nelle regioni centrosettentrionali. La trasformazione socio-culturale che ne scaturirebbe sarebbe evidentemente radicale, con probabili rilevanti problemi di tensioni sociali e politiche non facilmente solubili. Si può ritenere, alla luce dell'esperienza fatta in questi ultimi anni, che questi problemi possano essere meglio affrontati e risolti se il fenomeno dell'immigrazione è controllato e diluito nel tempo, in modo tale da evitare che l'immigrazione netta superi le 100.000 unità all'anno in media. Ciò potrebbe significare, tenuto conto dei figli e dei nipoti degli immigrati, uno stock di popolazione nel 2050 non superiore ai 65 milioni di abitanti. Comunque, anche con un'immigrazione netta così contenuta e diluita nel tempo, la struttura etnica della popolazione italiana muterebbe profondamente nei prossimi sessanta anni: poco meno di un quarto della popolazione del 2050 avrebbe genitori che oggi non sono di nazionalità italiana; la società italiana sarebbe decisamente multirazziale, pluriculturale con aspetti importanti di pluralismo religioso; data 68 la crescente novità del quadro le tensioni sociali e politiche da affrontare non saranno certamente irrilevanti. Inoltre, pur assumendo un'immigrazione netta che porti la popolazione italiana a 65 milioni di abitanti nel 2050, tale popolazione risulterebbe nettamente inferiore a quella di altri paesi che si affacciano sul Mediterraneo, come l'Egitto (142 milioni di abitanti nel 2050), la Turchia (120 milioni), la Siria (73 milioni), l'Algeria e il Marocco (69 milioni), il peso demografico dell'Italia, anche soltanto nell'area mediterranea, non sarebbe superiore a quello francese e figurerebbe di gran lunga inferiore di quello attuale. Ne discende che il ruolo dell'Italia nei rapporti politici internazionali può essere analogo a quello francese solo nei limiti in cui le strategie italiane riescano a seguire quelle francesi, e di altri paesi industrializzati oggi dominanti, nel mantenere una posizione emergente quanto a livello di sviluppo umano. Infatti, la capacità di riferimento simbolico e di guida su piano internazionale dovrebbe essere sempre più dipendente da condizioni di sviluppo (ben al di là del reddito prodotto) su cui si è fissata recentemente l'attenzione degli esperti dell'Onu. Si tratta di condizioni che fanno riferimento ai livelli di istruzione, di disponibilità e diffusione di servizi essenziali, di capacità innovativa, di partecipazione dei cittadini; oggi la posizione dell'Italia al riguardo (secondo i calcoli degli esperti dell'Onu) è piuttosto lontana da quella francese (22° posto rispetto all'8° posto) e da quella della Svizzera e dei Paesi scandinavi che, pur essendo attualmente di peso demografico modesto, godono di notevole autonomia politica/economica e giocano un ruolo politico internazionale tuttaltro che irrilevante. Le prospettive della dinamica demografica attesa nel mondo pongono dunque una sfida decisiva a chi intende gestire il proprio futuro ad assumersi la responsabilità di concorrere alla guida della società italiana verso il secolo XXI. L'Italia deve perseguire con decisioni strategie di sviluppo umano che consentano di non perdere
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