Il Bianco & il Rosso - anno IV - n. 40 - maggio 1993

{'!LBIANCO OIL, ILROSSO "'',,e.,a -s.i11H1 tt4 ,.,~, a personale e privata; anche perché l'esperienza politica ha sovrastato, in me, altre esperienze e interessi, pur senza annullarli ma consapevolmente sacrificandoli (e questo credo sia comune a moltissimi della mia generazione). Quale è stato il punto, nella rilettura di Croce, che mi ha indotto a tentare di dare un contributo alla critica della mia generazione? L'evidente consapevolezza, nel filosofo napoletano, della funzione e del ruolo da lui esercitati, una visione storica del proprio operato. Sono convinto che a una visione siffatta debbano ispirarsi anche quelli che, sia pure molto più modestamente, hanno cercato di operare, nella loro vita, con onestà verso se stessi, e con sincerità di intenti, per il raggiungimento di obiettivi di interesse generale. Certo, se fossimo chiamati a fare un raffronto, non vi è dubbio che la nostra simpatia, umana, politica e culturale, non potrebbe che andare a chi è preso dal tormento di una ricerca che metta tutto in discussione. Ma bisogna pur dire che un'ansia di rinnovamento e di ricerca, pur se profonda e sincera, e (come si dice adesso) spregiudicata, non può sortire risultati positivi se perde la memoria della storia, e del cammino faticosamente percorso. Una delle cose che più mi colpì e interessò, assistendo, nel settembre del 1988, a Munster, come «osservatore» del Pci, al congresso del partito socialdemocratico tedesco, fu la chiara volontà, in questo partito che proclamava e proclama orgogliosamente di essere il più vecchio «partito operaio» europeo, di non voler disperdere o rinnegare nulla del suo passato. Così, mentre nel congresso si svolgeva un dibattito, politico e programmatico, teso alla ricerca di vie nuove 57 per la sinistra tedesca ed europea, in un padiglione installato a fianco della sala congressuale dalle organizzazioni di base della Spd, si distribuivano, ai delegati e ai cittadini, medaglie-ricordo con i ritratti di Karl Marx, di Rosa Luxemburg, di tutti gli «antenati». Intendo dare, dunque, con questo libro, un contributo alla critica della mia generazione. Sia ben chiaro. Io ritengo che la mia sia stata una generazione fortunata, come lo sono state tutte quelle che hanno visto coincidere la propria giovinezza con un periodo di grande slancio nazionale e di grandi speranze, anche di miti. Avevo l'età di diciannove anni quando cadde il fascismo, e quando si aprì, pur se attraverso vicende terribili, la speranza di poter costruire un'Italia nuova, basata sulla democrazia, aperta agli sviluppi più avanzati, in un mondo di pace. Ciò dava un significato complessivo, ed esaltante, alla nostra vita, e ci faceva sentire investiti di una grande responsabilità verso noi stessi, e anche verso le generazioni future. In questo senso, si può parlare di una «generazione fortunata»: anche se, naturalmente, mi riferisco sempre a strati certo non larghissimi, e tuttavia abbastanza estesi, rispetto al complesso della popolazione giovanile di allora. C'è da aggiungere, inoltre, che mi riferisco a un'esperienza particolare, relativa a giovani intellettuali (o aspiranti tali) in una città come Napoli, che allora esercitava ancora una funzione di «capitale del Mezzogiorno», nel senso che in essa si concentravano, anche per ragioni politiche e di studio, le migliori energie intellettuali da tutte le regioni meridionali. Anche se i giovani residenti a Napoli non ebbero modo di essere direttamente coinvolti nella grande epopea della lotta partigiana (come accadde in-

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