no che il ruolo della Chiesa nei confronti della Dc si configura al tempo stesso come spinta e come freno al nuovo. Un partito confessionale in realtà ha oggi meno senso che mai. Nel momento in cui si delinea con forza - dopo la fine delle ideologie e lo scandalo di Tangentopoli - l'esigenza di una politica fatta di idee, di programmi, di valor'i che si traducano in azioni concrete, si spezza il legame tra fede religiosa e appartenenza politica. Rivoluzionare la forma tradizionale di partito e favorire nuove aggregazioni tra le forze politiche vuol dire anche superare il concetto di unità politica dei cattolici. In tal senso la riforma elettorale acquista una valenza di grande significato. Il sistema maggioritario uninominale impone ai partiti un rinnovamento profondo. Però mentre nel sistema uninominale «secco» all'inglese la Dc come partito di maggioranza relativa spera di mantenere il suo ruolo di perno del sistema, intorno al quale ruotano a fasi alterne partiti satelliti, nel caso dell'uninominale a doppio turno teme il coagularsi di un'alleanza di carattere alternativo ad essa. L'avvento di una democrazia dell'alternanza - grazie anche all'esaurirsi del fattore K in seguito agli eventi dell'89 - e la nascita di due o tre blocchi elettorali candidati alla guida del paese, con programmi predefiniti e vincolanD!LBIANCO ~ILROSSO 111 •~1§1• a ; 1 ti, può favorire la dispersione del voto cattolico. Il tentativo della Democrazia cristiana è quindi quello di mantenere quanto più possibile l'attuale sistema elettorale. In un primo tempo lo scudocrociato ha sostenuto, con l'ex presidente della bicamerale De Mita, un sistema proporzionale corretto con premio di maggioranza. In seguito, con l'accettazione obtorto collo del criterio maggioritario come fattore primario, ha propeso per un sistema misto a doppio voto in un turno elettorale. Un primo voto assegnerebbe il 60% dei seggi, relativi alla camera dei deputati, con un meccanismo maggioritario-uninominale. Il secondo voto sarebbe invece di lista con una distribuzione del restante 40% dei seggi in modo proporzionale, dopo aver scorporato i seggi precedentemente attribuiti. Il modello, a grandi linee, è quello tedesco - in definitiva proporzionale - e non imporrebbe ai partiti una loro profonda ridefinizione come invece avverrebbe con un sistema a doppio turno alla francese. La fuoriuscita di Segni dalla Dc acquista così un significato importante, per dare un carattere più chiaro alle istanze di cambiamento e rinnovamento insite nel referendum del 18 aprile. Lo scontro fra il leader referendario e Martinazzoli rappresenta in modo emblematico il travaglio democristiano: da una parte il tentativo, quello del se43 gretario Dc, di rinnovare il partito in maniera indolore, difendendone la struttura tradizionale di fondo, svolgendo un'azione mediatrice e di compromesso fra le varie anime interne, cercando di non stravolgere in maniera drastica i meccanismi che gli hanno concesso finora di ottenere il voto di centro e l'appoggio incondizionato della Chiesa, dall'altra l'idea, quella di Segni, di rompere col passato, ditagliare i ponti con gran parte della classe dirigente del partito, dando vita ad una nuova formazione collegata ai movimenti cattolici di base capace di svilupparsi in un sistema politico-istituzionale totalmente diverso dall'attuale. Sia Segni che Martinazzoli si muovevano, fino ad un anno fa, nella retroguardia della Dc, ancora dominata dal grande centro di Forlani e Gava, dalla sinistra di De Mita, dalla corrente Andreottiana. Il primo - l'eretico, come lo definiva qualche suo compagno di partito - veniva quotidianamente bacchettato sulle mani per le sue intemperanze referendarie. Il secondo - a capo di un tanto recalcitrante quanto sparuto «gruppo dei 40» - veniva dato 1 a 10 nel toto-segretario del declino forlaniano. Oggi si contendono, primeggiando fra tutti, l'intero elettorato cattolico. Tutto è cambiato nella Dc. Ma la cosa più sorprendente è che forse tutto sta ancora per cambiare.
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