Il Bianco & il Rosso - anno IV - n. 38 - marzo 1993

D~BIANCO ~ILROSSO OX♦Mi•HII EuropaSociale: unospaziodariempire Q uando verso la metà degli anni '80 il Presidente francese Mitterrand assunse l'iniziativa di rafforzare la politica sociale della Cee, questa si tradusse con la proposta di creare uno «spazio sociale europeo». Tra i commenti a caldo, tra l'incredulo e l'ironico, si segnalarono subito quelli di provenienza da oltre-Manica: che cosa vorrà mai dire «spazio sociale», se non qualcosa di vago, nebuloso e, in una parola, vuoto? Oggi, ormai a parecchi anni di distanza da quella proposta, molti - e non solo oltre-Manica - sembrano riconoscere il carattere premonitore di quelle battute. Lo stesso Presidente della Commissione, Jacques Delors, ha riconosciuto dinanzi al Parlamento europeo lo scorso febbraio che «i lavoratori hanno la sensazione che l'Europa sociale è una specie di fantasma inafferrabile». Che cosa è dunque accaduto in tutti questi anni sul versante sociale della Comunità? Non è il caso di ripetere quanto già ricordato in passato su queste pagine a proposito delle modeste ambizioni sociali del Trattato di Roma che resta a tutt'oggi la base fondamentale di riferimento in proposito. Malgrado gli obiettivi di solidarietà e di coesione dichiarati nei suoi articoli iniziali, il Trattato di Roma proponeva un capitolo di politica sociale non proprio volontaristico e di alto profilo: alla fiducia nell'armoniosa evoluzione del mercato era affidata la crescita del benessere e la sua «naturale>>redistribuzione. Lo stesso Fondo sociale europeo era concepito come uno strumento di accompagnamento per sostenere le inevitabili fordi Franco Chittolina me di mobilità, geografica e settoriale, che il mercato avrebbe richiesto nel suo sviluppo. Un tentativo di rafforzare il capitolo sociale del Trattato si riaffacciò con l'Atto unico del 1987 che, nella prospettiva di accompagnare la creazione del Grande Mercato Interno, consacrò un paragrafo alla dimensione sociale ed uno alla coesione economica e sociale della Comunità. I risultati non furono del tutto soddisfacenti se nel 1989 a Strasburgo i Capi di Stato e di Governo di undici paesi ritennero opportuno adottare, con il voto contrario della Gran Bretagna, la Carta sociale dei diritti fondamentali dei lavoratori che la Commissione accompagnò contestualmente con un Programma di attuazione della Carta. Oggi il bilancio di quelle iniziative è relativamente condiviso se le misure previste dal Programma si sono tradotte quasi integralmente in formali proposte della Commissione, pochissime di queste sono state adottate dai Governi degli Stati membri e sono in molti a pensare che i principi della Carta si siano persi nello spazio siderale europeo ... Quando poi alcune rare misure hanno tagliato il traguardo insperato dell'adozione da parte del Consiglio dei Ministri, vi sono giunte piuttosto malmenate come è accaduto alla direttiva sulla protezione delle donne incinte, mentre altre direttive stanno facendo del «surplace» in condizioni non proprio esaltanti, come nel caso delle direttive sul tempo di lavoro. Altre ancora, come quella sull'Informazione e consultazione di lavoratori nelle imprese transnazionali, pedalano stentatamente ai piedi della salita mentre le imprese «delocalizzano» agilmente i propri insedia62 menti nelle «Coree» interne della Comunità, come ricorda il caso recente della Hoover. Forse è questo bilancio piuttosto deprimente che ha spinto le organizzazioni sindacali europee a salutare con favore ali' inizio del 1992 il Trattato di Maastricht e in particolare l'Accordo sociale che questo contiene. Molto è già stato detto sulle modalità anomale di questo capitolo e soprattutto sul significato politico di un Accordo non condiviso da tutti gli Stati membri. Certo non è irrilevante che questo Accordo registri un ampliamento delle competenze sociali della Comunità, il passaggio dal voto all'unanimità a quello a maggioranza qualificata su materie sociali importanti (se non altro ciò indurrà un effetto-verità e scoraggerà la demonizzazione dal solito campioni del «veto» di un tempo) e, infine e soprattutto, un forte ruolo accordato alle parti sociali per le quali si apre la prospettiva di accordi europei. Ma a quel primo riflesso di segno positivo, una più approfondita rilfessione congiunta all'analisi di avvenimenti successivi nella Comunità hanno indotto una lettura più articolata del Trattato e certamente più critica. Non tanto forse sui contenuti specifici dell'Accordo sociale ad undici, quanto piuttosto sull'impostazione e gli equilibri complessivi del Trattato di Maastricht nel suo insieme. Contribuiscono a questa rinnovata e più severa lettura le intenzioni che si sono andate svelando in questi ultimi mesi tanto nel quadro dei dibattiti - almeno là dove vi sono stati - che hanno accompagnato il torturato processo di ratifica del Trattato (basti, per tutti, citare il tema della «sussidiarietà») quanto nelle modalità scelte per raggiun-

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