{' !.L BIANCO ~ILROSSO 1111 )- § 11HIl Servizisociali:contro letendenzeregressive a collocazione del!' assistenza L sociale, o dei servizi sociali, all'ultimo posto nella trattazione delle tematiche di Welfare, così come nell'assegnazione di ruoli politico-amministrativi, non è casuale, ed esprime la marginalità che viene a connotare un settore che si occupa appunto della marginalità sociale, e gli attori che vi operano. Un tale processo non è del resto raro, lo si può cogliere in molti aspetti della realtà, e c'è anche chi si sforza di interpretarlo. Come la marginalità non è ben definibile e circoscrivibile, così anche questo settore delle politiche e dei servizi tende ad essere disegnato accorpando e connettendo aree e funzioni residuali, necessarie a integrare o a connettere interventi più forti o definiti, quali la sanità, l'istruzione, la previdenza, l'occupazione. Questa residualità pesa sul settore nella debole considerazione sociale e culturale, nella inconsistenza degli assistiti come soggetti collettivi capaci di rivendicazione, nella disattenzione politica, nella povertà delle risorse ad esso dedicate, nella debolezza degli stessi lavoratori che vi si dedicano, relegati nei livelli bassi del pubblico impiego. Ciascuno di noi trova facili riscontri nella sua esperienza a quanto qui affermato. Ma se si vuole fare un esempio possiamo prendere una sequenza di voci di spesa dal secondo rapporto sulla spesa pubblica per l'assistenza (tabella 1) che come Irs abbiamo appena concluso per constatare come all'interno della spesa per prestazioni sociali, ovvero per previdenza sanità e assistenza, questa ultima abbia uno spazio relativo sempre più ridotto: dal 1983 al 1990 la spesa pubblica di Emanuele Ranci Ortigosa per l'assistenza è passata dal 27, 14% al 20,69% della spesa complessiva per prestazioni sociali. Richiamo ora disordinatamente realtà che ci circondano: dai due ai tre milioni di persone appartengono a famiglie «povere», e dai sei milioni e mezzo ai nove milioni di persone appartengono a famiglie «in difficoltà», secondo le più recenti indagini della Commissione governativa e del Censis; la diffusione della tossicodipendenza; il maltrattamento e il disagio minorile; la solitudine e i bisogni degli anziani, sempre più numerosi e sempre «più anziani»; la presenza degli immigrati extracomunitari e di tanti altri «senza casa»; l'emarginazione dei malati di Aids, e si potrebbe continuare. 58 Di fronte a problemi sociali come questi, gravi e sempre più complessi, il nostro sistema investe sempre meno: legislativamente (la riforma dell'assistenza attende da vent'anni almeno), amministrativamente (a livello nazionale non si sa a chi fa riferimento l'assistenza e il peso di chi se ne occupa è sempre scarso), finanziariamente (la spesa perde peso relativo), professionalmente. Eppure, soprattutto se dal terreno quantitativo passiamo a quello qualitativo, possiamo comprendere che l'intervento sociale può essere proprio quello che vede il problema della persona o della famiglia in stato di bisogno nel suo insieme, che se ne fa carico nella sua unitarietà e complessità, componendo interventi più specifici e mirati, curandone l'integrazione, gestendo la relazionalità complessiva con il soggetto interessato, nel rispetto e nella considerazione della sua personalità, delle sue scelte, delle risorse di cui dispone e che vanno valorizzate. Se questa è la funzione, non sempre la realtà vi corrisponde. La marginalità in cui si tende a relegare questi servizi e gli operatori che vi operano finiscono spesso per chiudere il loro intervento in una tradizionale logica assistenzialistica, in cui il caso si apre e non si chiude mai, in cui operatore e assistito sono relegati simbioticamente in una condizione senza prospettiva, in cui la fatica è sopravvivere. E questo ovviamente inibisce qualsiasi logica di prevenzione, progettualità, valorizzazione e integrazione di risorse personali, sociali e pubbliche, che orienta un intervento sociale qualificato. La fase economico-politico-culturale di crisi del Welfare che stiamo vivendo len-
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