Il Bianco & il Rosso - anno IV - n. 38 - marzo 1993

Se in Italia esso fosse stato adottato quando è stato proposto (metà anni '80) avrebbe comportato più che un aumento della spesa pubblica una profonda riforma del sistema dei trasferimenti, con notevoli vantaggi dal punto di vista dell'equità. Ma di questo concetto si è iniziato veramente a discutere in Italia solo dopo il 1988, dopo cioè che in Francia era stato istituito il «reddito minimo di inserimento lavorativo», che lega la percezione del sussidio alla frequenza a corsi di formazione professionale o al lavoro in attività di pubblica utilità. A questo strumento si sono infatti ispirali i diversi disegni di legge presentati in Parlamento alla fine degli anni '801 • Tra l'idea di reddito di cittadinanza e quella di reddito minimo di inserimento lavorativo si sono inseriti, oltre alla differenza di chi riteneva che garantire il reddito significava rinunciare a garantire il lavoro, l'esplosione della disoccupazione giovanile e il dibattito sugli effetti negativi sull'equilibrio del mercato del lavoro dei sussidi di disoccupazione e, più in generale, dei trasferimenti a favore delle famiglie in condizioni economiche precarie. Il fatto che l'Italia fosse il paese con la più elevata percentuale di disoccupazione giovanile e con uno dei tassi di attività D!LBIANCO ~ILROSSO 1111 woaa più bassi d'Europa, rendeva oltre che elevato anche incalcolabile il costo dell'introduzione di forme di reddito di cittadinanza o di reddito minimo. Queste osservazioni contribuiscono a spiegare perché i diversi progetti e disegni di legge insistevano sulla necessità di collegare la percezione del sussidio, anche modesto, a forme di impiego in attività socialmente utili o alla partecipazione a percorsi formativi. Ciò nonostante, anche così ridimensionata, l'idea non è passata; di essa è rimasta solo qualche traccia nella legislazione successiva (lavori socialmente utili, piano straordinario per l'occupazione giovanile nel Mezzogiorno, ecc.). A bloccarne l'approvazione hanno certamente contribuito le difficoltà finanziarie dello Staio e lo scarso impegno delle forze politiche e sociali, ma non solo. Credo infatti si possa affermare che contro l'approvazione abbiano giocato anche la scarsa credibilità delle proposte di impiego in imprese private, per le distorsioni della concorrenza che ne sarebbero derivate e i pericoli di truffa (puntualmente verificatisi poi con i lavori socialmente utili). Restavano quindi la pubblica amministrazione e le iniziative del cosiddetto «terzo settore». L'esperienza della legge 285 del 1977 e i fondati dubbi sulla 52 capacità della pubblica amministrazione italiana, ai diversi lilvelli, di gestire una massa così rilevante di persone, soprattutto giovani, ha reso improponibile anche l'ipotesi di affidare il tutto a quest'ultima. Necessariamente generiche erano poi le proposte di utilizzo del terzo settore per diverse ragioni: la mancanza di una precisa definizione giuridica di soggetti che lo componevano, la limitata conoscenza che dello stesso avevano le forze politiche e sociali, la scarsa visibilità e la modesta strutturazione organizzativa della maggior parte delle realtà di terzo settore. Se questa era la situazione alla fine degli anni '80, quali cambiamenti sono intervenuti a giustificare un'eventuale riproposizione di forme di reddito di cittadinanza o di reddito minimo di inserimento lavorativo? Le ragioni per riproporre i due strumenti, insieme o in alternativa, sono oggi certamente maggiori di qualche anno fa. I tagli della spesa pubblica e soprattutto la riduzione dell'offerta di servizi pubblici (sanità, servizi sociali, ecc.) rischiano di incancrenire le situazioni di disagio. La disoccupazione è in crescita anche nella componente giovanile e, soprattutto, in quella meno qualificata. Sta allontandosi anche la certezza che la ripresa congiun-

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