Il Bianco & il Rosso - anno IV - n. 38 - marzo 1993

{)!L BIANCO ~ILROSSO 1 •11 )-1•' I ;J Statosocialet,racrisi I I e r1organ1zzaz1one L e ragioni della crisi dello Stato sociale non sono di oggi, ma erano conosciute e comunque prevedibili da tempo. Proprio per questo è grave che le forze politiche e soprattutto quelle sociali,· non abbiano saputo o voluto affrontarla per tempo. Ragioni non solo e non principalmente economiche: afferma giustamente Cazzola (v. il suo recente libro «Lafabbrica delle pensioni») che siamo di fronte ad una spesa crescente e inversamente proporzionale alla qualità delle prestazioni e dei servizi. Sulla spesa sociale la serie di interventi (giusti o sbagliati che siano) del Governo ha interrotto un trend autodistruttivo, per cui si faceva fronte all'aumento del deficit con frequenti stangate fiscali e quindi con crescita dell'inflazione, calo di investimenti e di occupazione, maggiori interventi di sostegno alla produzione e all'occupazione, con un circolo vizioso che non finiva più. Ma le ragioni principali sono di carattere sociale: - calo della natalità ton conseguente diminuzione della forza lavoro e quindi ricorso all'immigrazione; - invecchiamento progressivo della popolazione, con vertiginoso aumento della spesa per pensioni e assistenza e contemporaneamente con crescente squilibrio fra cittadini «produttivi» (che pagano i contributi sociali) e «non-produttivi» che percepiscono pensione ed assistenza; - ingresso crescente delle donne nel mercato del lavoro (come diritto progressivamente realizzato) e maggiori esigenze di servizi sociali per l'infanzia e per la famiglia; - maggior mobilità del lavoro e delle di Pippo Morelli residenze, con maggiore domanda di servizi; - nuove fasce di bisogni e di disagi: dalle vecchie e nuove povertà alle ondate di migranti, dal recupero di milioni di handicappati all'intervento per i tossicodipendenti,ecc. A questi mutamenti oggettivi della società si aggiungono altri motivi soggettivi che aumentano e/o modificano la domanda sociale. Sono cioè entrati in campo i nuovi diritti di cittadinanza: dalla tutela della salute al diritto ad un ambiente sano e vivibile; dalla scuola dell'obbligo ad una formazione e riqualificazione per il lavoro; dal diritto all'informazione a forme reali e diffuse di comunicazione e partecipazione. Inoltre a questi mutamenti oggettivi e soggettivi si aggiunge l'avvicinarsi dell'entrata nell'Europa: nonostante i molti allarmi ed avvertimenti, non abbiamo considerato appieno quali conseguenze verranno non solo dall'allineamento degli assetti monetari e finanziari (sui quali continuiamo a prendere stangate) ma anche dall'armonizzazione delle politiche sociali. Siamo ancora fermi all'illusione di acquisire tutti i vantaggi ed anche di mantenere precedenti privilegi. Di fronte a questa crisi - più di progettazione che di spesa - credo non bastino politiche di riaggiustamento, anche se vanno fatte e rapidamente, per ridurre i costi, per eliminare sprechi e distorsioni, per superare inefficienze e burocrazie. Non credo nemmeno che basti affermare un ritorno al mercato, quando alcune risposte e servizi possono essere offerti solo dal «pubblico» e quando i molti privati da tempo esistenti nelle «convenzioni», 46 sono in effetti sovvenzionati e non sempre più efficienti delle strutture pubbliche. Si tratta quindi di ripensare non solo agli strumenti operativi (che certamente vanno resi più efficaci) ma agli stessi fondamenti e strutture dello stato sociale, per passare - con gradualità ma con chiarezza - alla «welfare society» dove si realizzi un equilibrato mix tra stato-famiglieprivato-volontariato-cooperazione sociale. Rispetto ai fondamenti del Welfare state vanno ripensati i criteri (essenziali per il solidarismo cristiano come per il riformismo marxista) dell'uguaglianza e della rasponsabilità principale dello Stato: 1) l'uguaglianza non solo dei diritti, ma anche dei bisogni: con questo criterio gli Stati e le pubbliche amministrazioni «progressiste» hanno superato le politiche di assistenza ai poveri, agli invalidi, ai bisognosi per mirare allo «statodel benessere». Ma come affermava don Milani, «dare gli stessi diritti e gli stessi benefici a persone in condizioni diverse non porta all'uguaglianza ma aumenta le diseguaglianze». Se facciamo riferimento alla realtà italiana, dopo decenni di sviluppo economico e di spesa sociale rilevante abbiamo ancora (v. II rapporto sulla povertà in Italia, F. Angeli 1992) oltre 8 milioni e 700 mila persone (pari al 15% delle popolazioni) in condizioni di povertà, ,poche hanno un reddito mensile di circa 370.000 lire. Per di più la povertà è distribuita diversamente, con un 9% al centro-nord che balza al 26.4% nel mezzogiorno. Inoltre accanto all'area della povertà si estende quello del disagio: 3 milioni di handicappati (di cui 2.870.000 invalidi), 3.800.000 sofferenti di malattie croniche, 1milione e mezzo di extracomunitari. La situazione non è molto migliore in

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