Il Bianco & il Rosso - anno IV - n. 38 - marzo 1993

{)!L BIANCO ~ILROSSO 111•AAJ•H;I Definirei «minimamoralia» dellacittadinanzanuova - I dilemmi dello stato sociale, come tutti i dilemmi importanti di valore politico e morale, hanno una essenziale varietà di aspetti e consentono più di un approccio. Economisti e sociologi, demogra- - fi, storici e giuristi, scienziati, politici possono esercitare al meglio le loro competenze professionali impegnandosi via via nella ricostruzione comparata delle vie differenti che in differenti paesi e circostanze hanno condotto all'arrangiamento istituzionale del welfare state, nell'esame dei costi e dei benefici, nell'analisi della coerenza fra i principi o i valori e gli esiti,nel bilancio della efficacia delle politiche e dei metodi, nella anatomia impietosa degli effetti perversi o semplicemente non attesi sotto il profilo dell'equità, dell'efficienza o dei loro variabili trade o!!. Quanto mi propongo in queste brevi osservazioni è di avanzare un argomento a favore di un ridisegno dello stato sociale nella direzione di uno stato sociale minimo che è pertinente entro il più ampio contestodi sfondo di una teoria normativa dell'eguale cittadinanza. Il mio è, in parole povere, un argomento filosofico e si svolgequindi inevitabilmente a un alto livellodi astrazione e generalizzazione. La speranza è che possa funzionare come una specie di «bussola» concettuale per orientarci e fissare la rotta nella difficile navigazione, di fronte alle sfide e ai deficit del welfare state per come esso è venutoconfigurandosi nel tempo. Premetto, a scanso di equivoci, che io sono tra quelli che continuano a ritenere il nucleo normativo che è alla base dello stato sociale una delle maggiori conquiste di civiltà di questo secolo così pieno di tragediae bellezza, nell'ambito di società di Salvatore Veca della parte ricca del mondo in cui la democrazia pluralista occupa lo spazio delle istituzioni politiche e il mercato quello delle istituzioni economiche (con esiti più o meno brillanti in entrambi i contesti). La lealtà a questo nucleo di principi, cui corrisponde una particolare interpretazione della sorte o dello status condiviso di cittadinanza non implica tuttavia che siano sottratti alla discussione e all'esame nazionale i metodi, le politiche, i provvedimenti intesi come mezzi per perseguire i lini dettati dall'esigente e impervia idea di eguale cittadinanza sociale. Come sempre nella storia, nello zigzag delle vicende umane la soluzione di vecchi problemi ne crea semplicemente di nuovi. Anche nelle sue migliori esemplificazioni realizzate, lo stato sociale non può che misurarsi, per una varietà di ragioni e circostanze, con gli effetti derivanti dai suoi «successi». La più drastica innovazione nei metodi e nelle istituzioni appare allora del tutto giustificabile, oltre che auspicabile, se e solo se è soddisfatta la clausola della coerenza con i principi e i valori che hanno informato, nella sua variabile insorgenza, la costruzione del welfare state. Nella formulazione che io ritengo più perspicua lo stato sociale è stato pionieristicamente definito e concettualizzato come un service state: l'idea guida è quella dell'eguale dignità cui ha diritto ciascun cittadino per il semplice fatto di essere un partner che vale almeno tanto quanto chinque altro in quell'impersa cooperativa e conflittuale nel tempo che usiamo chiamare società. Il service state non prevede che i cittadini siano trattati come clienti, né presuppone un pervasivo paternalismo; esso non ha come scopo il livellamento quanto propriamente la abi35 litazione di uomini e donne che devono avere eque opportunità di guidare la propria vita, di modellare il proprio destino individuale e collettivo senza rischiare di essere convertite in una condizione di sudditanza dovuta alla sorte e ai suoi handicap, alla «lotteria» naturale e sociale. Il bene pubblico più prezioso è in questo senso quello delle risorse o delle basi sociali della pari dignità di cittadinanza. A me sembra che dovremmo prendere sul serio questa elementare convinzione di valore politico e morale che è alla base dell'ascrizione di diritti sociali: diritti a quel paniere di beni preliminari o di risorse principali senza le quali collassa la pari dignità e l'autostima e uomini e donne, senza loro responsabilità, divengono schiave delle circostanze. L'immagine più appropriata resta quella di una rete di proiezione o di un principio di assicurazione contro gli esili negativi e moralmente arbitrari della sorte sociale dai molti volti che rende ipocrita o fatua la promessa dell'eguale status di cittadinanza. Naturalmente, questa immagine, e l'idea che essa suggerisce sono esigenti: richiedono che la massima di giustizia distributiva non coincida con il precetto «a ciascuno secondo il suo grado (variabile o contingente) di capacità di minaccia» e che la identificazione pubblica di quali interessi debbano essere selezionali come degni di essere soddisfatti a base pubblica non derivi dall'interesse delle agenzie che erogano i beni pubblici. L'affollamento e l'ipertrofia delle burocrazie, la «secchia bucala» dei trasferimenti alla Okun, la contrattazione è la rinegoziazione di «chi ha diritto a cosa, come e quando» devono essere rimosse dall'ambito del ridisegno di uno stato sociale che realizzi

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