Il Bianco & il Rosso - anno IV - n. 38 - marzo 1993

{)!LBIANCO ~ILROSSO iiiiiil•P Iugoslavias:egnidiorrore segnidisperanza di Luisa Morgantini F a freddo a Belgrado, sedici gradi sottozero, arriviamo in piazza per manifestare con le donne che ormai da un anno rendono visibile il loro rifiuto della guerra sostando ogni mercoledì per un'ora, vestite di nero ed in silenzio. Con Time for peace, durante il capodanno, da tutta Italia siamo partiti in più di mille, spargendoci per tutta la ex-Jugoslavia, cercando di capire e conoscere, con un messaggio di non violenza e portando aiuti alle vittime di questa tragica guerra. Anche noi abbiamo portato aiuti ai rifugiati in Vojvodina. In Serbia sono più di 600.000, il 95% sono ospiti nelle case da parenti e da amici o da gente che ha aperto la propria casa per solidarietà (il rappresentante dell'Onu ci diceva però che oramai con l'embargo e la difficile situazione economica - 22.000% di inflazione - molte famiglie non possono più sostenere i rifugiati). Pochi sono quelli che stanno nei campi e quando li incontriamo ci raccontano la tragedia del dover abbandonare le loro case, di mariti, fratelli ammazzati. Rabbia, odio, disperazione, tutti dicono di volere la pace ma poi sostengono le posizioni più nazionalistiche. Come gruppo di donne volevamo rafforzare le relazioni che dall'inizio del conflitto abbiamo stabilito con serbe, croate, musulmane, jugoslave. Quando in piazza ci uniamo a loro, ci lasciamo avvincere dalle emozioni nel vedere che la forma di protesta che in Italia abbiamo fatto nostra è diventata uno dei modi di opporsi alla guerra delle donne di Belgrado. Donne in nero, noi lo abbiamo imparato dalle donne israeliane che dall'inizio dell'Intifada manifestano contro l'occupazione militare della Palestina, e siamo 15 state in piazza per la Palestina e contro la guerra del Golfo per più di un anno. Ma l'emozione più forte è per il loro coraggio e la loro solitudine, non è facile manifestare per la pace quando una comunità difende la propria identità e pensa di essere in guerra perché attaccata, l'accusa è di tradimento. Poi ci incontriamo per discutere insieme di solidarietà, di paura, di appartenenza. In molte prevale il senso di impotenza e di sconfitta, alle elezioni hanno vinto Milosevic e Sesely, rafforzando il nazionalismo. Sentono che si rafforza l'idea della grande Serbia e temono che anche il loro dissenso possa essere represso. Soffrono della mancanza di rapporti con le donne croate, slovene e bosniache, i rapporti si sono interrotti perché il conflitto etnico ha vinto, ma con altre, alle quali sono unite dalla condivisione del rifiuto della violenza non possono comunicare, perché anche il telefono tra Zagabria e Belgrado è tagliato. Ci raccontano del loro lavoro in un centro per sostenere le donne violentate dai «nemici» nella guerra ma anche quelle violentate dagli uomini della stessa etnia. Insieme discutiamo, riconoscendo le nostre disparità nella solidarietà. Discutiamo di paura, e vorrei riportare qui alcuni frammenti di loro interventi: ... «ci sono due ordini di paure: una è quella di muoversi per strada, negli ultimi tempi è scomparsa ogni forma di legalità, molti girano armati, la polizia ha perso il controllo, non interviene; l'altra è quella che viene dall'essere di origine ungherese. Ho pensato che le dodici lettere che compongono il mio cognome potranno decidere della mia vita... sento una rabbia impotente perché mi sembra di non poter fare niente per cambiare la situazione ... non avrei mai potuto immaginare l'immensità della stupidità della mia

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