Il Bianco & il Rosso - anno IV - n. 36/37 - gen.-feb. 1993

' ~JJ, BIANCO lXILROS.SO l•U#Olil Egiustochel'aborto restipertuttiunproblema s e appena si guarda al di là delle apparenze e delle deformazioni unilaterali, si deve constatare un fatto di per sé ambiguo, ma oggettivamente positivo: e cioè che l'aborto resta un problema dovunque, anche là dove si riteneva che la sua pratica fosse entrata ormai nel costume, cioè nella fisiologia dei comportamenti personali e delle valutazioni sociali. Non è così e se ne deve prendere atto. Non è così negli Stati Uniti dove l'amministrazione Clinton allarga le maglie di una prassi restrittiva sostenuta dai repubblicani; non è così in Polonia dove si sta ancora cercando un punto d'equilibrio tra la permissività del regime comunista, con l'abitudine popolare che si è instaurata, e la tendenza al divieto della nuova democrazia; non è così in Irlanda dove si è instaurato un regime a dire il vero un po' ipocrita che vieta l'interruzione della gravidanza in patria, ma la consente al di là delle frontiere, a due passi da casa. La mia opinione è che fintantoché si mantiene aperto il dibattito sull'aborto come problema di scelta etica fondamentale si può evitare di banalizzarne il significalo, di considerarlo un optional per superare situazioni personali difficili. E in questo quadro sono convinto che svolgono un ruolo positivo tutte le istanze, religiose ma non solo, che rammentano la consistenza della questione che si pone quando si ha a che fare con la vita umana. Che essa sia poi interamente presente o che non lo sia ancora importa di meno. Lo stesso manifestarsi dei nodi della bioetica a proposito delle varianti della inseminazione e soprattutto della manipolazione embrionale investe momenti che addirittura precedono o accompagnano il concepimento. E se insorgono dubbi e interrogativi sugli antefatti non si di Domenico Rosati può negare che l'intervento su una entità che è già vita o che, secondo altri punti di vista, può diventarlo, rappresenta almeno un caso serio, non un ostacolo da scansare con disinvoltura. Sotto questo profilo non è risolutiva l'enfasi sul carattere soggettivo della decisione e della responsabilità finale, assegnala alla donna. Se non ci si colloca fuori dal circuito etico anche alla donna si ripresentano lutti gli interrogativi e tulle le contraddizioni che il dibattito mette in evidenza, con in più un carico di sofferenza personale che non può essere in ogni caso alleviato. E per l'Italia? Francamente diventa insopportabile la ripetizione annuale della relazione ministeriale come pretesto di contrapposte interpretazioni volle a dimostrare che la legge 194 induce all'aborto oppure che ne freni l'estensione. Una polemica che data dalla emanazione della legge sulla interruzione della gravidanza in Italia, che venne esasperala nel corso del referendum del 17maggio 1981e che non ha ancora trovalo sbocchi di superamento o di sintesi. Eppure proprio nell'occasione del referendum era stato individualo uno spazio da esplorare in prospettiva non già per conciliare l'inconciliabile sul piano dei principi e per mutare il giudizio sulle norme definite dal Parlamento, ma per avviare una «gestione» del processo post-referendario che non fosse la ripetizione pura e semplice dello scontro ideale e culturale. Ricordo di aver sostenuto allora, come presidente delle Acli, una lesi che trovò qualche riscontro ma che non ebbe seguilo. Si trattava di una proposta di lettura globale del confronto referendario il quale, come si ricorderà, si svolgeva su Ire opzioni: quella radicale che privatizzava totalmente l'interruzione della gravidanza, quella 56 «cattolica» detta «minimale» (l'unica ammessa dalla Corte costituzionale) che ammetteva il ricorso in casi limitatissimi e quella di convalida della legge 194,che però ne sottolineava, specie nella campagna del Pci, la forte valenza sociale che escludeva in particolare l'aborto come strumento di controllo delle nascite. Dalla bocciatura del quesito radicale e dall'intreccio del risultalo del quesito «cattolico» con le motivazioni non abortiste più persuasive addotte per la convalida della legge, immaginavo una prospettiva di collaborazione possibile Ira «antiabortisti» e «nonabortisli». Una collaborazione concentrala non già sui meccanismi delle norme che consentono l'aborto, ma sui varchi che esse lasciavano e lasciano all'intervento volto a prevenire il ricorso all'interruzione della gravidanza specie, si diceva allora, per i casi riferibili a motivazioni economiche e sociali. La proposta aveva come corollario una maggiore flessibilità nell'attuazione dell'obiezione di coscienza dei medici cattolici, irriducibile quanto all'atto abortivo ma non indispensabile nelle fasi antecedenti, quando l'alternativa all'aborto dovrebbe essere obbligatoriamente e concretamente configurata. La preferenza accordala ai consultori cattolici ha senza dubbio imposto una delimitazione di campo perimelrando però «apriori» le zone di influenza e di orientamento, per cui è sottinteso che chi va al consultorio cattolico non vuole abortire, mentre il contrario accade per chi si rivolge a quello pubblico. E l'ineffabile ministro De Lorenzo può vantare come segno di imparzialità dell'area pubblica il fatto che «in una Usi di Roma il 5% delle donne che avevano chiesto l'aborto ha invece proseguito la gravidanza dopo il colloquio con il personale del consultorio». Sono riproponibili oggi, con i dovuti ag-

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