i.)JJ, BIANCO lXILROS.SO I•X•#i I MIl Difenderela 194e accrescerela responsabilità versolavita A ancora oggi, dopo la caduta del muro di Berlino, mentre tutto e tutti stanno cambiando, non si riesce a sfuggire, nel dibattito sulla legge 194,allo stanco riproporsi di vecchi scenari. È difficile avviare un confronto, pur necessario e auspicabile intorno ai temi della procreazione, quando una delle parli si ostina aripetere che l'esistenza di una legge, poiché rende l'aborto possibile legalmente, ne diffonderebbe inevitabilmente l'uso; oppure che la legge 194sarebbe il risultato dell'egoismo di donne decise a rifiutare la propria potenzialità materna; è arduo discutere con chi ritiene le donne incapaci di responsabilità. È complicato avviare un confronto utile, se ci si rifiuta di dare il giusto valore ai dati, che parlano, ormai da anni, di una lenta, ma costante diminuizione del numero degli aborti. I detrnttori della 194 sostengono anche che la legge non avrebbe prodotto sostegno alle donne in difficoltà e quindi non avrebbe onorato l'impegno alla tutela della vita umana dal suo inizio, solennemente proclamata nell'articolo uno. Si afferma addirittura che la legge sarebbe staia applicata «ideologicamente», favorendo e non «dissuadendo» le potenziali madri dalla scelta di interrompere la gravidanza. Sarebbe facile rispondere che le donne che si rivolgono a un consultorio sono già passate attraverso il calvario dell'incertezza e poi di una scelta dolorosa, hanno valutato mille volte tutte le possibilità, tutte le strade possibili. Certo è sempre possibile aiutare una donna che lo desideri a trovare risposta ai problemi concreti, quando questi - e non è frequente - siano rapidamente risolvibili da un intervento sociale pubblico o privato. Ma sarebbe ancora una volta ipocridi Giulia Rodano sia non dirsi che non è questo il vero terreno della lotta contro l'aborto. Quando si parla di «dirittoalla vita»sembra si dia per scontato che «prima, quando le donne non potevano decidere», tale diritto sarebbe stato maggiormente difeso. Non c'è nulla di più falso. La procreazione come destino era pagata, - e quanto duramente è ancora pagata in tanta parte del mondo! - dagli aborti clandestini come pratica di massa, dalla mortalità infantile, dalla morte di milioni di madri per parlo o per sfinimento, dalla segregazione e dall'oppressione delle donne. È grazie alla legalizzazione dell'aborto e all'uso responsabile che le donne ne hanno fatto, che tante di esse sono passate in questi anni, affrontando le lungaggini burocratiche, la vergogna della pubblicità, l'ostilità dei medici, dall'aborto clandestino a quello legale e poi dall'aborto alla contraccezione, facendo diminuire il numero delle interruzioni. Non ci può essersi, per un osservatore onesto, prova migliore della saggezza di una norma che si è affidata alla responsabilità delle donne. Quello che veramente non si riesce a comprendere, e di cui tanti uomini non riescono a valutare fino in fondo le conseguenze, è che le donne non sono più disponibili a subordinare le proprie scelte di vita al solo destino riproduttivo e cercano al contrario di inserire la maternità all'interno di un progetto complessivodi vita che è fatto anche di altre cose, come hanno sempre potuto fare gli uomini, senza per questo passare per egoisti. Il vero problema nuovo che abbiamo di fronte tutti, se vogliamo onestamente affrontare il nodo della tutela della maternità sta nel fatto che una donna la quale voglia essere madre e esprimere se stessa nel mondo della produzione, della vita civile e politica, si scontra con un'organizzazio40 ne, un sistema di valori e di priorità che relegano al privalo e di fatto respingono la maternità. Se profitto, arricchimento, produttivismo esasperalo sono gli unici parametri di valutazione, certo la gravidanza, l'allattamento, il tempo della cura dei bambini divengono tempo sprecalo, buttato, da penalizzare, da cancellare. Ho letto, tempo fa, in un bel reportage di Alberto Jacoviello, relativo ad un suo incontro con alcune donne magistrato, che una di esse, nell'annunciare di essere incinta, raccontasse di essersi decisa quando ha avuto la certezza che l'ufficio non sarebbe rimasto sguarnito, perché sarebbero arrivati altri magistrati, da tempo attesi. «Il lavoro non ne avrebbe sofferto». Quale magistrato uomo si è mai trovato a dover fare questi così responsabili calcoli? Ma quei calcoli hanno coinvolto ancora una volta solo la donna, e la donna, da sola, ha dovuto trovare la soluzione. Si possono risolvere con la cosiddetta dissuasione problemi di questa natura? La libertà femminile, la volontà delle donne di essere responsabili della propria vita, fa diventare per la prima volta nella storia, la maternità rilevante, non un evento privato che muta solo la vita delle donne, ma un fatto che investe tutti, uomini, collettività, organizzazione del lavoro. Quando hanno preteso che l'aborto uscisse dalla clandestinità, le donne hanno gettato un sasso nello stagno di questa solitudine. Di fronte al dramma della decisione di interrompere una gravidanza, un processo vitale che una donna non identifica genericamente come «una vita», ma come un possibile proprio figlio, non deve più «dolere»solo il cuore della singola donna; il dolore, lo scacco - come la responsabilità - sono di tutti, sono della collettività. Non penso, e non lo pensavano le don-
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