Il Bianco & il Rosso - anno IV - n. 36/37 - gen.-feb. 1993

~.li-BIANCO "-IL ROSSO lii•#O•lil Quandole opposteideologie consacranolaviolenza D i nuovo siamo angariale da un dibattilo ideologico sull'aborto che non tiene conio della questione di fondo: per tutte le donne che lo vivono l'aborto è un lutto, un dolore, parla parole angosciale perché dice di no a qualche cosa che potenzialmente dentro di noi si muove per entrare nel mondo. Ma è il dolore del «no» rispetto al piacere dell'abbandonarsi al «sì», dolore che si radica nella carne, che fa soffrire fisicamente e psicologicamente. La mutilazione di una potenzialità non è mai vissuta con incosciente disinvoltura, come tanti crociali antiabortisti raccontano. L'aborto è una delle espressioni nella nostra vita del dramma del limite, e il lutto è molto complesso e difficile da elaborare. I sogni delle donne che l'hanno vissuto ci raccontano il grumo di dolore inestirpabile che rimane, la ferita dell'inconscio, al di là dell'essere o meno cattoliche. La scelta è durissima e la ferita rimane. Bisogna aiutarci, non solo nel campo della prevenzione fisica, ma in quella psicologica, nel senso dell'apprendere a non metterci in situazioni a rischio psichico. Da questo punto di vista è totalmente carente l'intervento psicologico nel campo della prevenzione; di questi tempi pare un lusso chiedere un intervento psicologico in più nei consultori, ma è quello che servirebbe. Come mai si rimane incinte anche conoscendo i metodi anticoncezionali? C'è un elemento non definitivamente catturabile entro i confini della ragione ed è una sorta di sfida alla vita e alla morte che noi donne ci portiamo dentro, iscritta nel codice femminile-materno:nel dare la vita noi portiamo al mondo, con la vita, la morie, la possibilità, l'inevitabilità per i nostri nati di andare incontro al dolore e alla morie. Se pensassimo di essere portatrici esclusivadi Lella Ravasi Bellocchio mente della vita saremmo in una zona psicologica molto vicina all'onnipotenza. Se, viceversa, ci identificassimo con l'aspetto di morte (presente, insisto, in ogni vita e in ogni nuova vita) non metteremmo più al mondo dei figli. È il difficile equilibrio Ira le parli che ci rende possibile la maternità. E, a volte, questo equilibrio non si trova. La prevenzione psicologica consiste nel ' ,,. V . ' - ·; .t:?,.' A • : I !, ~::\f~t ' ~:. . \ I" '' ·~·-'' :,, ,:: \~;-~ \.Y; ,., J ~t.i , \,,(".) ~, .. . '. ';, . , ' rendere le donne sempre più consapevoli delle molte contraddizioni del «materno» per arrivare davvero a una scelta «responsabile» (per quanto è possibile). Questa è la strada dignitosa e rispettosa non solo dei nostri diritti, ma anche dei nostri limiti. Ed è fondamentale apprendere, con l'esercizio del limite rispetto all'onnipotenza, la strada della «autodeterminazione», scelta difficile, complicala, come tutte le scelte. Se un altro decide al mio posto (la Chiesa, o all'opposto un'ideologia «liberante», o il medico o il marito) sarà una violenza in più sul mio corpo e sulla mia psiche. Se io decido (di interrompere o di proseguire) sarà un passo in più sulla strada della consa39 pevolezza e della maturazione. Ma non c'è automatismo nel passaggio:·c'è la fatica di comprendere, scegliere o assumersi la responsabilità della scelta. Difficile ricono• scere una realtà psichica fondamentale, e cioè che la donna che decide di abortire è l'altra faccia di quella che decide di continuare la gravidanza: in entrambe le situazioni un'altra zona rimane in ombra, non giocata, non vista. Le figure che si muovono dentro di noi sono molte e spesso in conflitto fra loro: c'è il lato materno più «naturale», per cui partorire è un gesto istintuale; c'è un lato più legalo alla cultura che alla natura per cui il figlio nasce prima nella testa che nella pancia. È dalla legittimazione di tutte le nostre parti interiori, dalla coscienza come dalle dinamiche dell'inconscio, che scopriamo un modo di essere donna più complesso e capace di «autodeterminazione», cioè di relazione con l'altro, con l'uomo come altro da sé, senza reciproche dipendenze . La paura della libertà per ciascuno di noi, la paura della relazione tra soggetti porta a costruire sbarre pesanti per gabbie che ci costringono. In questo caso specifico, limitare, impedire la libertà di scelta delle donne ha il sapore di qualcosa che torna sistematicamente nella storia a ripresentarsi; il bisogno di dominare, controllare ossessivamente il corpo o la psiche dell'oggetto donna. Di fondo è lo stesso mec· canismo psicologico che sta alla base della violenza e dello stupro: si afferma il possesso del territorio. La Jugoslavia oggi con ventimila donne violentate, costrette a portare in pancia il nemico, liberate oltre il tempo limite possibile per abortire, lasciate a loro stesse e ai «mostri»da generare, è il simbolo drammatico della distruzione che si può operare sull'oggettodonna, della violenza che la maternità imposta può rappresentare.

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