Il Bianco & il Rosso - anno IV - n. 36/37 - gen.-feb. 1993

,P-ll,BIANCO il.IL ROSSO _,,,., •. . Unacrisistrutturale: occorreunaverasvolta di FaustoVigevani i fronte alla gravissima crisi industriale e occupazionale del Paese, senza precedenti nel D dopoguerra, è impressionante l'assenza pressoché totale di analisi delle cause e di proposte per affrontarla. La crisi che investe la possibilità di tenuta di centinaia di migliaia di posti di lavoro nell'industria (ma anche nei servizi e nell'agricoltura) appare così figlia di nessuno, e un fatale prodotto dei tempi. Le conseguenze di una così drammatica divaricazione tra la denuncia dei problemi e gli sforzi per affrontarli hanno precise e fondamentali responsabilità nel padronato e in particolare della Confindustria e del Governo. Il sindacato ha invece la responsabilità di una tardiva percezione della crisi che già nella fine del 1991con gli accordi sulla ristrutturazione di grandi imprese e i prepensionamenti di migliaia di lavoratori, segnalava problemi strutturali e di fondo, e non problemi di tipo congiunturali. Si è perso oltre un anno di tempo ma ancora non sono sufficienti le perdite di posti di lavoro registrate e le previsioni di ulteriori pesantissime perdite, per affrontare le questioni per quelle che sono. Per la Confindustria e l'insieme del padronato la riduzione del costo del lavoro prima e del costo del denaro poi hanno rappresentato gli obiettivi e le terapie per superare le difficoltà. Dopo il blocco delle dinamiche salariali e la riduzione del salario reale dei lavoratori, la riduzione del 6% dell'occupazione nella grande industria, la riduzione del costo del denaro e una sostanziosa svalutazione della lira, la situazione non solo non è migliorata, ma è più grave e pericolosa di prima. Ma ciò non basta a dimostrare che la crisi è strutturale, che c'è una debolezza organica dell'apparato produttivo del Paese e come tale la situazione va affrontata. Ci si inventa invece e si valorizzano mo12 difiche normative del mercato del lavoro che, di fronte alla recessione, potranno solo avere l'effetto di una maggiore riduzione dell'occupazione attraverso l'espulsione di manodopera più anziana e la parzialissima sostituzionecon manodopera meno qualificata ma a minor prezzo. Insomma la gravità eccezionale della situazione non sembra avere la forza di imporre una svolta, di imporre finalmente anche in Italia la scelta di una politica industriale degna di questo nome che affronti le questioni per quelle che sono, cioè le ragioni e le radici della nostra debolezza. Troppa economia protetta - anche industriale - senza concorrenza interna e internazionale, che divora risorse e produce inflazione. Scarsissima internazionalizzazione delle maggiori imprese e dei sistemi di impresa. Troppe imprese troppo piccole. Nessuna politica né dello Stato né delle imprese per l'innovazione. E ancora: diseconomie esterne derivanti da inefficienza della Pubblica Amministrazione, dai trasporti, dall'energia, dalle telecomunicazioni. In più una miseranda struttura delle istituzioni finanziarie, dalla Borsa al rapporto bancheindustria, soprattutto per un sistema caratterizzato da una abnorme presenza di piccole e piccolissime imprese, che per anni sono stati una risorsa, ma che oggi, nella nuova competizione europea e internazionale, sono un problema. E infine, ma non ultima, una struttura di impresa rigida, con troppi livelli gerarchici, che bruciano innovazione, competitività, consenso. Solo mettendo in campo politiche di mediolungo periodo a cui raccordare necessarie misure di emergenza non incoerenti o alternative ad una strategia di politica industriale, solo scegliendo strategie universalmente ritenute come fondamentali, investendo massicciamente nell'innovazione, nelle risorse umane e nella formazione, attuando relazioni partecipative e una politica della redistri-

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