Il Bianco & il Rosso - anno IV - n. 36/37 - gen.-feb. 1993

ISS1120-7930- SPED.ABB.POST. - GR. 111/70% ~lLBIANCO l.XILROSSO MENSILE DI DIBATTITO POLITICO vnn:~ la tempesta:Riforme. E per risanare:Politica di Pierre Camiti e cronache quotidiane ci confermano in un giudizio che, su que- L ste pagine, andiamo esponendo da tempo. Il sistema politico che ha retto il Paese per quasi mezzo secolo è finito. Esso è obbligato a trasformarsi sotto l'impulso di una triplice sfida esterna: il successo leghista, le inchieste giudiziarie, gli imminenti referendum elettorali. Il voto leghista del 5 e 6 aprile e delle consultazioni parziali successive è il prodotto di diversi fattori. Se nessuno può dire che la si36/37 ANNOIV0 •GENNAIO/FEBBRAIO1993•1. 7.000

IN QUESTO NUMERO EDITORIALE Pierre Carniti Oltre la tempesta: Riforme. E per risanare: Politica pag. 1 ATTUALITÀ Salvatore Veca Psi: a tempi nuovi questioni e risposte nuove pag. 4 Bruno Manghi C'é una «questione morale» anche per il sindacato pag. 6 Gianfranco Borghini Rilanciare economia e lavoro: senza demagogie, con responsabilità pag. 7 Gianni Italia Per lavorare tutti, lavorare meglio pag. 10 Fausto Vigevani Una crisi strutturale: occorre una vera svolta pag. 12 Luigi Viviani Il lavoro difficile e l'impotenza della politica pag. 13 Paolo Garonna La Questione Occupazione nei paesi industrializzali pag. 15 Pierre Carniti La sfida della solidarietà e la crisi del lavoro, oggi pag. 18 Giovanni Gennari Morelli in «licenza». In premio di che? pag. 21 Per una Costituente federativa laburista pag. 22 DOSSIER Rivedere la 194 sull'aborto? Ada Becchi Collidà Ri-criminalizzare l'aborto serve a niente, e a nessuno pag. 28 Adele Cambria Oltre la strumentalità di crociala: autodeterminazione pag. 29 Anna Carli Rafforzare la prevenzione per aiutare le donne ad evitare l'aborto pag. 30 Anna Catasta Troppa retorica pro-vita. Nessun aiuto alla scelta femminile pag. 32 Paola Gaiotti Con la 194 è in gioco tutta la politica di maternità e infanzia pag. 33 Marica Mereghetti Tra valori e coscienza ripensare un cammino per tutti pag. 36 Vilma Occhipinti Condividere e responsabilizzare oltre le opposte ·e vane crociale pag. 37 Lella Ravasi Bellocchio Quando le opposte ideologie consacrano la violenza pag. 39 Giulia Rodano Difendere la 194 e accrescere la responsabilità verso la vita pag. 40 Loredana Rosa Quando la 194 sarà tutta e meglio applicata? pag. 42 Luisa Saba La maternità non è un destino, ma responsabilità condivisa· pag. 43 Grazia Zuffa La libertà reale della madre unica tutela della vita nascente pag. 45 Gennaro Acquaviva Occorre migliorare l'applicazione di tutte le parti della legge pag. 46 Giovanni Bianchi Tra valori etici e urgenze reali una legge che serva le persone pag. 48 Carlo Casini Uno sguardo al bambino non nato per migliorare la 194 pag. 49 Domenico del Rio Ripensare la 194? Cerio: per ripensare la vita intera pag. 51 Mario Gozzini La migliore riforma è applicare la 194, prevenzione compresa pag. 52 Gianni Mattioli Rinvigorire la prevenzione e rispettare l'autodeterminazione pag. 55 Domenico Rosati È giusto che l'aborto resti per tutti un problema pag. 56 Il testo della legge 22 maggio 1978, n. 194 pag. 58 L'EUROPA E IL MONDO Silvana Paruolo 1993: a che punto è l'Europa sociale? pag. 65 INTERVENTI Paolo Giammarroni Il cronista: dentro la scena della rivolta morale. Ma come? pag. 69 Gigi Biondi Psi e riformismo vero. Lettera aperta a Camiti pag. 72 SCAFFALE Caritas Diocesana di Roma Realtà Immigrazione, Dossier statistico 1992 pag. 74 Immagini: disegni di Burne-Jones

icl.lL BIANCO lXILROSSO 1i 111111Alill tuazione politica sarà migliore quando sarà cambiata non c'è dubbio che non pochi elettori, con la loro decisione di voto, hanno inteso esprimere l'intenzione (nei limiti consentiti dalle attuali regole elettorali) che il sistema politico deve 9ambiare se si vuole che diventi migliore. Le inchieste giudiziarie, a loro volta, hanno ulteriormente affievolitola legittimità del vecchio ceto politico. Che è ormai a livelli incredibilmente e pericolosamente bassi. I magistrati stanno svolgendo un'opera meritoria che va perciò apprezzata. Non bisogna dimenticare però che in un sistema ordinato di poteri i magistrati hanno, rispetto alla vita politica, la stessa funzione che il chirurgo ha per la nostra salute: quella di intervenire sulle patologie. Il chirurgo interviene su mali che non sono risolvibili altrimenti. Quando cioè le medicine sono inefficaci e la prevenzione non serve più perché la malattia si è già manifestata. Le inchieste giudiziarie.in corso sono quindi utilissime a fini di giustizia, ma non sono certo lo strumento capace di risolvere i problemi del funzionamento del sistema politico. I problemi politici esigono, infatti, rimedi politici. C'è infine la questione dei referendum. Tutto lascia supporre che tra due o tre mesi ci sarà la consultazione referendaria. Indipendentemente dalla qualità delle modifiche alla legge elettorale che essa determinerà, si può tranquillamente ritenere che si tratterà di una sorta di plebiscito (dall'esito praticamente scontato) contro la prima repubblica ed a favore della seconda. Da quel momento la valanga del cambiamento diverrà praticamente inarrestabile. Essa investirà, in primo luogo, il sistema elettorale. Già da ora il dibattito non è più tra i sostenitori del sistema proporzionale e quelli del maggioritario, ma se il maggioritario debba essere ad un turno od a due turni. È chiaro che non si tratta di una variante tecnica, ma politica. CÒn un solo turno si avrebbe, infatti, una brutale semplificazione del sistema politico. Mentre con i due turni si eliminerebbero i guasti del proporzionalismo senza soffocare il pluralismo. In ogni caso con il passaggio dal proporzionale al maggioritario si passerà da una concezione della democrazia ad un'altra. Dietro il sistema proporzionale c'è, infatti, l'idea che la democrazia debba «dare rappresentanza» a tutte le posizioni che si esprimono nella società. Dietro il maggioritario c'è invece l'idea che la democrazia debba, prima di tutto e soprattutto, «governare». 3 Si può tranquillamente ritenere che se un'idea è considerata più moderna di un'altra è soltanto perché nessuna delle due è immortale. Infatti i sistemi elettorali, come quelli istituzionali, non esprimono una verità assoluta, perenne. Essi sono il prodotto della storia e possono perciò benissimo mutare con il mutare del contesto storico. Non c'è dubbio che la legge elettorale proporzionale, nel nostro caso, ha avuto una funzione importante. Perché ha consentito di metabolizzare cambiamenti diversamente indigeribili. Basti pensare alla migrazione biblica dal Sud al Nord; alla trasformazione di una società essenzialmente agricola in società industriale. Ma, nel tempo, il suo costo era diventato troppo alto in termini di frantumazione, di mancanza di ricambio, di moralità. Al punto in cui siamo, la realizzazione di un nuovo sistema elettorale, più che desiderabile, appare indispensabile. Non si dovrebbe ignorare però che, da sola, la modifica delle regole elettorali è una «condizione necessaria, ma non sufficiente». Perché le cose della politica possono cambiare davvero sono indispensabili contestuali trasformazioni istituzionali che consentano di realizzare, anche da noi, la «democrazia dell'alternanza». Una democrazia cioè dove, al dunque, si confrontino due programmi, due schieramenti, due candidati. Questo risultato si può ottenere solo con indispensabili trasformazioni istituzionali. Vale a dire con l'elezione diretta del sindaco (naturalmente con un ballottaggio a due e non a tre, come invece ha cervelloticamente deciso la Camera) del presidente della Provincia, della Regione e del capo dell'esecutivo a livello nazionale. Poiché una simile evoluzione, almeno per ora, non si intravede, questo resta un motivo di forte preoccupazione. Se, infatti, si perdesse il nesso tra sistema elettorale e meccanismi istituzionali, la stessa democrazia rischierebbe di avvitarsi su se stessa. C'è chi sostiene (non senza esagerazioni o forzature) che stia finendo un regime. Sicuramente sta finendo un'epoca. E, come in tutte le fasi di passaggio, si possono aprire grandi potenzialità, ma c'è anche il rischio che passi indietro siano compiuti. Questo pericolo non lo possono scongiurare né i giudici, né i referendum e, men che meno, il voto leghista. Può essere scongiurato solo da una forte ed appropriata iniziativa politica.

.P!LBIANCO l.XILROSSO ATIUALITA Psi:a tempinuovi questionei rispostneuove di Salvatore Veca Pubblichiamo volentieri il contributo del prof. Veca, che per ragioni tecniche non ha trovato posto nel Dossier sul futuro del Psi, pubblicato nel numero scorso. G.G. V orrei suggerire due abbozzi di riflessione possibili sulla «questione socialista» oggi. Entrambi sono ispirati, per quanto è possibile, alla celebre massima di Spinoza per cui è bene «non piangere, né ridere, ma comprendere». La massima del filosofo è naturalmente molto esigente. Tuttavia,non è forse inutile evocarla come un principio di responsabilità intellettuale e civile, prima ancora che politica, sullo sfondo di una scena inevitabilmente piena di suono e di furia, a pochi giorni dal collasso elettorale del 13 dicembre, dall'avviso di garanzia al segretario del Psi e dall'ultima, tormentata e vischiosa, di,ezione del partito. Il primo motivo di riflessione è quello che può render conto in modo plausibile della logica che ha caratterizzato la vicenda politica del Psi nei lunghi anni del dopo Midas e che ha costantemente guidato e modellato, piaccia o non piaccia, le scelte di fondo di una leadership sostanzialmente monocratica e fortemente personalizzata che ha, sino a qualche tempo fa, mantenuto un'altissima coesione interna e conservato un consenso praticamente unanime e quasi bulgaro fra i dirigenti 4 nazionali del partito. Dalprimum vivere alla grande riforma, dalla governabilità alla formula di unità socialista, la politica del Psi è stata la politica di un attore che, in primo luogo, rispondeva alle sfide e agli imperativi della competizione e della collusione propri del sistema di cui faceva parte con un ammontare variabile di risorse. Come è ovvio, la vicenda del Psi e la logica della leadership di Craxi sono a pieno titolo parte integrante della storia del sistema dei partiti della «prima» repubblica. Questa storia è una storia che, nell'ultimo ventennio, ha visto inevitabilmente aumentare e crescere a un ritmo impressionante l'espansione dell'area di competenza e di influenza, di potere dei maggiori attori del sistema partitico. Una politica ubiqua e pervasiva; un uso improprio e distorto delle risorse del consenso e dell'autorità legittima; una sistematica e strutturale (non contingente) occupazione e identificazione con le istituzioni che, in una democrazia almeno decente, dovrebbero essere neutrali e super partes; un intreccio perverso e ormai giudiziariamente familiare fra politica e affari; il monopolio del controllo su esecutivi e go-

~!LBIANCO UJtROSSO ilii•Ciliil verni la cui debolezza era direttamente proporzionale alla forza e alla capacità di minaccia dell'oligopolio partitico. È più o meno questo !'«ambiente» o il «sistema» in cui si è definita e ridefinita nel tempo la logica dell' «attore» collettivo Psi. Sia chiaro: non intendo giustificare la progressiva trasformazione del partito socialista in uno dei partner più impegnati e affaccendati nel comitato d'affari dell'oligopolio dei partiti dell'ancien régime italiano; cerco solo di comprendere, alla luce della massima esigente del grande filosofo. Se si tiene presente questo sfondo che ha nella buona sostanza a che vedere con le trasformazioni del sistema di rappresentanza pluralistica di una lunga fase della democrazia italiana, non è sorprendente la apparente contraddizione fra le virtù innovative che nell'ambito della cultura politica della sinistra credo vadano riconosciute al Psi tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta e la costruzione di un'impresa politica di mediatori d'affari vistosamente partecipe dei vizi e produttori di veri e propri mali pubblici e danni privati di competenza della magistratura della repubblica. Ora, il collasso di legittimità e di credibilità di questo sistema partitico, consolidatosi negli ultimi decenni, non poteva non mostrare in primo piano - e in modo proporzionale all'ammontare di potere visibile e vistoso esercitato entro quel sistema - il fallimento di un partito che, per necessità o vocazione della sua leadership, ha costantemente proclamato e chiamato «strategia» quella che era semplicemente mutevole «tattica» nella partita con gli altri giocatori nel contesto del club dei partiti ubiqui e pervasivi, cui è ovviamente doveroso ascrivere un punteggio differenziato in termini di maggiore o minore responsabilità. Il primo abbozzo di riflessione consente in tal modo di porre l'accento sulla necessità 1) di prendere atto che, più o meno drasticamente il contesto di fondo è oggi mutato; 2) di prendere sul serio la questione inderogabile della ridefinizione del ruolo, dei limiti, delle competenze, della struttura e della ragione sociale dei partiti e dell' associazionismo politico; 3) di ritrovare le motivazioni per conferire o restituire dignità alle prospettive di lungo termine, al nesso variabile, ma imprescindibile fra ideali e interessi, fra principi e metodi o provvedimenti della riforma sociale, alla coerenza fra cultura innovatrice e pratiche e condotte di un partito che in ogni caso ha nel suo codice genetico alcuni fra i valori elementari di libertà e di 5 solidarietà che restano irrinunciabili per una sinistra alle soglie del terzo millennio. Mi rendo conto che si tratta di tre punti difficili; tuttavia, ritengo che eluderli coinciderebbe più o meno con il suicidio o con una sorta di eutanasia. Il riferimento a termini remoti dei nostri vocabolari di moralità e politica quali riforma sociale e solidarietà, mi consente di abbozzare, in modo inevitabilmente sommario, un secondo motivo di riflessione. Proviamo a allargare il nostro quadro di riferimento. Spostiamo il fuoco dalla questione socialista nel contesto italiano alla questione socialista oggi nel contesto più ampio delle società a tradizione democratica più o meno consolidata. Qui ci troviamo di fronte a una serie di dilemmi che toccano in modo cruciale il nesso fra «socialismo» e «sinistra». La mia impressione è che, dopo il collasso di una parte del mondo e la fine di un'era geopolitica stabile (piacesse o meno) che ha caratterizzato una lunga fase del secondo dopoguerra, questi dilemmi siano propri di qualsiasi forza politica organizzata che ha fatto o faccia parte della variegata famiglia dei partiti socialisti, socialdemocratici, laburisti (compreso l'anomalo partito comunista italiano prima della conversione in Pds). In due parole: il secolo delle socialdemocrazie, in un angolo ricco del mondo, ha contribuito alla costruzione delle democrazie pluralistiche rappresentative. I partiti dei lavoratori sono stati i partiti dell'inclusione di larghissime masse di popolazione esclusa, dell'universalismo e dell'eguaglianza nell'ascrizione, nella selezione, nel riconoscimento dei diritti di cittadinanza, diritti civili, politici e sociali. Essi hanno contribuito alla conversione dello stato diritto in stato sociale (non sono stati gli unici protagonisti di questa vicenda, ma hanno certamente svolto un ruolo cruciale in questa impresa di civiltà e di solidarietà). Ora, com'è naturale, la soluzione di problemi ha come effetto collaterale quello di generare nuovi problemi. Credo che i dilemmi del riformismo e della sinistra consistano oggi nel mantenere lealtà e integrità nei confronti di questi valori non negoziabili in un mondo profondamente mutato, un mondo in cui le sfide più grandi sembrano emergere per un verso entro i confini degli stati-nazione in cui le politiche della riforma hanno operato e, per l'altro, al di là dei confini nell'arena transnazionale o internazionale, dove la scena è affollata dalle prime guerre post guerra fredda, dalle grandi migrazioni, dall'insostenibile ineguaglianza fra

.P.lL BIANCO lXILROS.SO _,, .• ,,. parte ricca e parti maledettamente povere del pianeta. Come ridefinire inclusione, universalismo, eguaglianza e solidarietà su questa scena così drasticamente alterata? Mi rendo conto che l'allargamento dell'orizzonte può a prima vista sfuocare i contorni netti e aspri della questione socialista, oggi, qui, in casa nostra. Tuttavia mi chiedo: non è forse proprio di una prospettiva di sinistra, tesa a generare le condizioni di pari dignità per uomini e donne e a minimizzare la sofferenza socialmente evitabile, prendere sul serio gli altri, le loro ragioni, i loro bisogni, le loro aspirazioni e assumersi responsabilità per un futuro la cui ombra sia più estesa sul presente? Le domande per chi crede nel riformismo e nella solidarietà potrebbero allora essere: chi sono oggi gli altri? E dove? E sino a quanto e sino a quando deve estendersi la nostra responsabilità? C'è una«questionemorale» ancheper il sindacato di Bruno Manghi i potrà discutere nel merito la decisione di ritirare i rappresentanti sindacali dai vari consigli di amministrazione. Sta di fatto che Cgil, Cisl e Uil hanno saputo dare l'impressione di reagire con una tempestività sconosciuta ai partiti. s Quanto al tema delle illegalità e delle trasgressioni connesse all'attività sindacale avevo già all'inizio dell'estate (sul Sole di giugno) cercato di definire la specificità della situazione. Nel passato il sindacato conosceva due casi ricorrenti di possibile trasgressione: da un lato la possibilità che il sindacalista o il rappresentante «vendesse» gli interessi dei rappresentati, dall'altro l'uso della violenza e della prevaricazione nel corso di lotte particolarmente aspre. Si tratta di trasgressione in declino, poiché il livello di avvertenza e informazione dei lavoratori è cresciuto e per il graduale attenuarsi dell'antagonismo come riferimento portante dei conflitti. Sono invece crescenti altri tipi di trasgressioni, i casi cioè in cui il sindacalista o il delegato possono trarre risorse dalla condizione di potere, di veto o di gestione in cui la legittimazione dell'organizzazione li ha posti. Si tratta di una condizione diversa da quella dei partiti. Infatti il sindacato ha risorse sufficienti, co6 stanti e legittime per sopravvivere. È molto improbabile che occorra rubare per il sindacato. I comportamenti illegali riguardano perciò singoli o gruppi che agiscono per sé. Anche per questo si può affermare che la maggioranza del ceto sindacale è estranea a trasgressioni del tipo tangente o furto o appropriazione indebita. Tuttaviail fenomeno esiste e cresce costantemente in ragione della diffusione di macro poteri affidati a uomini del sindacato. Il caso dei Consigli di Amministrazione è tra i meno diffusi. Altre possibilità di reato lo sono di più: mercato dei posti di lavoro, gestione dei trasferimenti, quota in piccoli appalti, fondi Cee e pubblici mal spesi, illegalità nei consorsi, qualche caso di accordo sottobanco nei contratti di formazione lavoro,gestione di carriere e promozioni. Talvolta si trasgredisce per premiare la «fedeltà» talaltra per guadagnarla. Naturalmente questa situazione è del tutto eccezionale nel sindacato industriale (salvo aree partiticizzate e momenti delicati come passaggi di proprietà). È più frequente in tutti gli ambienti dove, la situazione di monopolio, l'impresa, l'azienda o l'Ente hanno vissuto a fondo l'occupazione parti-

- I - .PJL BIANCO l.X.11..ROSSO Mil•Miiiii tocratica e dove il sindacato ha partecipato allacogestione dell'inefficienza, quando non al saccheggio. È ovvio perciò che nelle Poste, nella Sanità in parecchie azienda municipalizzate l'illegalità sindacale sia più probabile che non in acciaierie o in una manifattura tessile. Altre opportunità le troviamo nelle aziende marginali dove il controllo dei lavoratori e il livello di trasparenza sono bassissime. Come regola generale potremmo dire che le trasgressioni sindacali sono più facilmente di casa in ambienti di lavoro «malati» in cui i criteri di efficienza, di diligenza e di merito professionale sono tendenzialmente ignorati. Sarebbe allora sbagliato dedurre una ingiusta condanna per il sindacato. L'accusa che ci dobbiamo fare è semmai quella di aver contribuito anche noi a sviluppare e a difendere una mentalità statalistico-burocratica, tale da schiacciare l'etica stessa del lavoro. C'è però un'altra questione morale ed è quella concernente la deriva delle regole interne al sindacato, anche là (come nella Cisl) dove c'era una superiore sensibilità formale. È un portato dell'espressione burocratica e dell'ingresso inevitabile dei sindacalisti nel ceto politico in senso lato. Abbiamo così una gestione disinvolta dei distacchi sindacali, svariate e gravi anomalie nei congressi, tessere non consegnate, probiviri di regime, bilanci oscuri. In poche ma rilevanti categorie di fatto gli incentivi alle rivendicazioni sono tali da renderla di fatto obbligatoria mentre in altri aderire è ancora un rischio e un sacrificio. C'è perfino un caso in cui gli iscritti a Cgil Cisl e Uil sono più numerosi degli addetti regolari al settore. Ci sono luoghi in cui essere del sindacato vuole dire abbandonare ogni prospettiva di carriera sindacale ed altri in cui si diventa dirigenti restando in distacco sindacale. Non si tratta di illegalità ma pur sempre di una condizione moralmente inaccettabile. Insomma a volerlo c'è parecchio da fare. Specie se a fare vogliamo esser noi e non aspettare qualche duro intervento da fuori. Rilanciareeconomiea lavoro: senzademagogiec,onresponsabilità di Gianfranco Borghini 1problema dell'occupazione è certamente il più grave fra quelli che stanno oggi di fronte al Paese, ma è anche il più difficile da risolvere. Proprio per questo non si deve dare l'idea che esistono soluzioni facili e che sia solo questione di volontà politica il realizzarla. Chi ragiona in questo modo è un demagogo. La verità è che un'efficace politica per l'occupazione presuppone misure economiche e di riforme tutt'altro che «popolari». Anzi, presuppone misure che, almeno nell'immediato, sono destinate a scontentare soprattutto 7 quello che in gergo si chiama il «popolo di sinistra». Il presupposto essenziale di una politica che ponga al primo posto l'allargamento e la qualificazione della base produttiva nazionale al fine di creare - principalmente per questa via - nuovo lavoro, è infatti, il reperimento di risorse attraverso una severa politica di bilancio. Ridurre la spesa e aumentare le entrate è dunque il primo passo da compiere. Il secondo è quello di incidere sui meccanismi stessi delle spese (e delle entrate) attraverso riforme che modifichino in modo sostan-

itl.lL BIANCO lXltROS.SO Mii•Miliil ziale il modo di essere dello Stato Sociale. Il terzo è quello di ridefinire in radice l'intervento pubblico in economia. Se ci si incammina in questa direzione ci si imbatte in resistenze non tutte e neppure principalmente di stampo conservatore. Se però la sinistra, anziché contrastarle arretra e, per puro opportunismo, decide di cavalcare questo tipo di reazioni pensando di trarne chissà quale vantaggio l'occupazione nel nostro Paese è destinata a diminuire ulteriormente e la nostra base produttiva a restringersi ancora di più. La prima condizione perché si attui in Italia una seria politica per l'occupazione è dunque che le forze che sono più diretta espressione del mondo del lavoro impostino una strategia di politica economica e di riforme volta ad allargare la base produttiva e che, quale che sia la loro collocazione parlamentare, tengano con coerenza e rigore questa posizione. Essere all'opposizione non dovrebbe autorizzare nessuno a dire delle sciocchezze o ad ingannare i lavoratori. C'è per tutti un dovere di coerenza e di responsabilità nazionale cui non si può venire meno in nessun caso. Ecco perché misure quali il blocco dei licenziamenti (per legge?) o la riduzione per decreto dei tassi di interesse in attesa di avviare una ristrutturazione generale dell'economia, non possono essere proposti da nessuno che voglia seriamente impegnarsi a difendere l'occupazione. In concreto, ciò significa che la riduzione del vincolo di bilancio deve essere assunta come obiettivo prioritario di una politica per l'occupazione. La riduzione della spesa, oltreché attraverso i tagli, va perseguita, soprattutto se a governare sono le forze della sinistra, attraverso una modifica dei meccanismi della spesa. È in questo contesto che si collocano le riforme della Previdenza, della Sanità, della Pubblica Amministrazione. Ed è sempre in questo contesto che si colloca la trasformazione delle aziende pubbliche di servizio, oggi totalmente deresponsabilizzate in imprese vere e proprie, in S.p.A. o in Enti Pubblici economici. Così come va in questa direzione la trasformazione del rapporto giuridico di lavoro dei pubblici dipendenti. In questo campo non basta tagliare (come vogliono le forze conservatrici), ma si deve riformare anche se per farlo ci si deve scontrare con delle resistenze corporative. 8 Le risorse che lo Stato libera attraverso una diversa politica della spesa e quelle che acquisisce attraverso una diversa politica fiscale (senza escludere, nell'immediato anche manovre di tipo straordinario) debbono essere indirizzate principalmente, se non esclusivamente, verso l'allargamento e la qualificenza della base produttiva. Anche qui però sono necessarie riforme. Per allargare la base produttiva e, soprattutto, per qualificarla bisogna puntare molto sulla ricerca, sulla formazione, sull'università e su un rapporto diverso tra questo mondo e quello della produzione. Bisogna muoversi, insomma, in una direzione opposta a quella della Pantera al cui inseguimento si lanciò, incautamente, il vecchio Pci in balia ormai dell'umorale movimentismo del suo gruppo dirigente. Bisogna attivare politiche industriali che spingono l'apparato industriale verso una riorganizzazione. Ed è precisamente in questo contesto che si deve collocare la privatizzazione delle Pp.Ss. la quale, intanto ha un senso, in quanto è un momento della più generale riorganizzazione dell'apparato produttivo nazionale. È altresì indispensabile un nuovo rapporto fra banca e industria e fra industria e risparmiatori attraverso l'istituzione dei fondi di investimento e soprattutto dei fondi pensione. Va infine fatto uno sforzo serio, che è di riforma ma anche organizzativo e gestionale, per potenziare le grandi reti dei servizi (Tlc - trasporti e poste) attraverso una forte qualificazione dell'intervento pubblico e uno stimolo (anche rinunciando al monopolio) per favorire la crescita di una impresa in questo campo. La politica per l'occupazione è una politica di sviluppo che deve proporsi di rimuovere - con le riforme e con una accurata gestione delle risorse pubbliche - tutti gli ostacoli all'allargamento della base produttiva, alla sua qualificazione e alla ripresa su basi più ampie della accumulazione. Ma, si dirà, questa politica è destinata a dare frutti soltanto nel medio-lungo periodo: nel breve che cosa si può fare? Nel breve si deve accompagnare l'avvio di questa manovra che del resto il governo Amato ha, quanto meno, impostato con misure di carattere straordinario che intervengono sull'impresa. Talimisure debbono essere di due tipi: il primo di carattere per così dire keynesiano e il secondo di carattere lavoristico.

icl.lL BIANCO lXILROSSO _,,,.,.,, Quelle di tipo keynesiano devono consistere in un «rastrellamento» del bilancio dello Stato per reperire tutti i fondi disponibili agli investimenti, al pagamento dei debiti verso le imprese, all'avvio di tutte le opere pubbliche possibili, all'attuazione di progetti straordinari di interesse sociale (ripulitura dell'alveo dei fiumi, beni culturali, ecc.). La svalutazione della lira, la flessibilità del cambio, la piena utilizzazione dei fondi strutturali Cee e il reinvestimento dei proventi delle privatizzazioni possono concorrere, anch'essi, a tonificare il mercato e a sostenere l'occupazione. Le misure di tipo lavoristicodevono dare una flessibilità al mercato del lavoro. L'argomento secondo il quale non ha senso rendere flessibile un lavoro che non c'è è francamente demagogico e sbagliato. In realtà una delle cause della disocuppazione giovanile e della scarsa mobilità è proprio la rigidità del nostro mercato del lavoro che in una fase di disoccupazione crescente diventa un handicap che è interesse di tutti rimuovere. La disoccupazione, infatti, non è tutta uguale: c'è la disoccupazione giovanile e c'è quella femminile, ci sono i lavoratori prossimi alla pensione e quelli fra i 35-50 anni. Ognuno ha problemi specifici e l'efficacia di una politica dipende dalla capacità di incidere su queste specificità. Si può discutere sul salario d'ingresso, sui contratti di inserimento o sui contratti di formazione e lavoro,ma non c'è dubbio che sono strumenti utili per favorire l'inserimento dei giovani nel processo produttivo soprattutto in un Paese nel quale il 71 % dei lavoratori in cerca di occupazione è rappresentato da giovani. Anche il lavoro interinale presenta aspetti discu - tibili (anche se regolamentabili): ma non vi è dubbio che per certi settori e per certe fasce di lavoratori può essere uno strumento utile. 9 I contatti di solidarietà dovrebbero essere utilizzati assai più ampiamente se si vuole evitare l'espulsione dei lavoratori più anziani. Più complesso è il problema dei lavoratori che si trovano nella fascia centrale (fra i 35 e 50 anni) e che se messi in mobilità, rischiano davvero di non trovare un nuovo lavoro. Il prolungamento indefinito della cassa integrazione non è la soluzione del problema. La soluzione è la riqualificazione e una gestione attiva della mobilità. Vogliamo sperimentare, sia pure per un arco di tempo breve, strumenti nuovi quali corsi di formazione mirati, concordati fra le organizzazioni sindacali e gli imprenditori o !'out placement affidato a società specializzate. Su questo terreno, quello cioè della gestione della mobilità, il Paese deve dotarsi di strutture e di una capacità gestionale che va costruita, insieme, dalle organizzazioni sindacali, dagli imprenditori e dalle istituzioni. In conclusione la mia opinione è che per creare lavoro bisogna imboccare la via dello sviluppo e che questa richiede una severa gestione del bilancio e insieme misure incisive, e forse impopolari di riforme dello stato sociale; che nell'immediato, si debbono accompagnare le misure di riforma e di rilancio dell'economia con misure congiunturali coerenti; che, infine, tutto ciò si possa realizzare a due condizioni: che le forze del rinnovamento, le forze riformiste, trovino una loro unità e si qualifichino come una credibile forza di governo e che si realizzi in un patto sociale fra le organizzazioni sindacali, le organizzazioni imprenditoriali e il Governo. Non un patto corporativo, non un confuso convergere, una autonoma assunzione di responsabilità da parte di ciascuno per rinnovare il Paese e promuovere, difendendone i bisogni e i valori, il lavoro.

.P.IL BIANCO \XILROSSO _,,,., • Perlavoraretutti, lavoraremeglio di Gianni Italia L a crisi occupazionale è ormai evidente a tutti. Il Capo dello Stato ne ha fatto oggetto di un esplicito e pressante appello al Presidente del Consiglio. Alcune misure sono state prese sia in termini di provvedimenti mirati alle aree territoriali in crisi che di carattere generale. Ritornerò su queste iniziative, ma occorre prima concentrare la riflessione sulle cause. Nella nostra bilancia commerciale c'è un dato paradossale. Se si prende in esame il settore della metalmeccanica, si riscontra che nel confronto della meccanica il saldo attivo in questi anni, compreso il '91 è cresciuto (anche prima della svalutazione). Mentre nel comparto dei mezzi di trasporto, c'è una progressiva esplosione del deficit, con un'accentuazione nel '91. Gli ultimi mesi dopo la svalutazione non hanno dato quei segnali uniformemente positivi che molti attendevano, anche se bisogna tener conto della congiuntura negativa a livello mondiale. C'è quindi un dato allarmante dovuto alla bassa capacità competitiva dei prodotti. Caso esemplare il settore automobilistico nel quale la Fiat perde quote di mercato in Italia e non riesce a crescere in Europa. Ma questo vale anche per le produzioni dei beni strumentali e nei settori dove la presenza dell'industria italiana è tradizionalmente forte. Malgrado si sia teorizzata la qualità totale, sembra essere proprio questo il punto debole del nostro sistema industriale. Questa situazione dipende in buona parte da un costo del denaro molto elevato. Anche se questo non spiega tutto. Ciò può valere per la domanda interna. Il peso del finanziamento al debito e il conseguente riflesso sui tassi di interesse rende poco appetibile l'investimento industriale. Il nodo che stringe alla gola l'economia reale deve essere allentato. Provvedimenti di riduzione di questo peso devono andare oltre la strategia dei prestiti in valuta estera o in Ecu, proprio in ragione delle pre10 visioni che concordano tutte sulla crescita del debito almeno fino al 1955. Inoltre, operare con manovre straordinarie sul fronte delle entrate inasprendo ulteriormente la pressione tributaria nominale o intervenire sulla riduzione di spese con tagli sullo stato sociale sarebbe economicamente pericoloso e socialmente iniquo. Nella crisi occupazionale che stiamo vivendo c'è anche il riflesso delle decisioni giuste, ma gestite in maniera dilettantesca, di privatizzazione delle Pp.Ss.: si è risposto più alle pressioni dell'opinione pubblica «eccitata» peraltro dai vertici confindustriali, sostenuti come al solito dalla corte di falsi moralizzatori. Le modalità di scioglimento dell'Efim - ad esempio - hanno prodotto la più grave crisi del dopoguerra in termini di credibilità del nostro paese sui mercati finanziari. Il modo altalenante di procedere alla privatizzazione di Eni ed Iri ha creato una incertezza circa l'affidabilità degli interlocutori ed ha prodotto la paralisi dei prestiti internazionali. E per un sistema a bassa capitalizzazione come quello a partecipazione statale è stato un disastro. Sospensione di piani di investimento, blocco dei pagamenti ai fornitori, riduzione dell'attività produttiva hanno innescato una grave crisi che ha inciso pesantemente sull'occupazione delle aziende a Pp.Ss. e del loro indotto, in particolare nelle aree dove la presenza di queste aziende è forte. Anche il sistema della subfornitura, e conseguentemente della piccola impresa, è sottoposto alle conseguenze della caduta di produttività dei settori committenti, oltre a subire i contraccolpi degli spostamenti verso i paesi dell'Est europeo di alcune produzioni a basso valore aggiunto. L'insieme del quadro necessita di iniziative nell'immediato, ma pone gravi problemi di strategia nella politica industriale per il futuro.

i)JLBIANCO '-'lit ROSSO Mii•ili•id Per l'immediato si tratta di operare su due direttrici: la ripartizione del lavoro e la creazione di lavoro. La riduzione degli orari di lavoro è un aspetto che torna di forte attualità. A questo scopo vanno orientati sia l'iniziativa contrattuale che quella legislativa. Anche perché lo strumento che è stato enfatizzato in questi anni, il prepensionamento, non solo è costoso, ma si è dimostrato anche iniquo. Il superamento di questo «facile» strumento di riduzione degli organici implica la necessità di considerare il lavoro una risorsa e la riduzione del tempo di lavoro una possibilità per valorizzarla. In questa direzione si muovono alcuni provvedimenti del governo che rendono possibile un largo utilizzo dei «contratti di solidarietà» per i quali la Fim e la Cisl fecero al loro sorgere battaglie aspre verso il padronato, contrario alla loro adozione, ma anche con le altre organizzazioni di categoria e confedera li. È augurabile che le vecchie opposizioni siano cadute e si possa fare oggi ciò che allora è stato ostacolato. Un secondo aspetto della ripartizione del lavoro riguarda la modifica delle leggi che regolano gli orari di lavoro e il carico contributivo ad essi collegati. Fin quando un'ora di straordinario costa all'impresa meno che una di orario normale la pressione per la riduzione o ripartizione degli orari avrà una concorrenza difficilmente superabile. Connessa con uno sforzo in direzione della riduzione temporanea o definitiva degli orari è l'attivazione di una efficace gestione del mercato del lavoro almeno in due direzioni. La prima relativa all'avviamento dei giovani al lavoro. Su questo aspetto il collegamento tra salario e crescita professionale non può essere eluso dal sindacato, il quale può operare con la contrattazione verso un controllo collettivo più efficace. Insieme a ciò particolare importanza assume la gestione della mobilità non solo negli aspetti formativi che sottintende, ma anche per la efficacia della ricollocazione. A tal proposito si rende sempre più necessaria una riforma che assegni alle Agenzie regionali dell'impiego anche i poteri del collocamento. Un'efficacia particolare devono acquisire gli strumenti pubblici e privati operanti sul versante della creazione di impresa. In questi anni si è ca11 pito quanto ritardo il nostro paese avesse accumulato nel realizzare un efficace strumentazione in questo campo. Accanto alla Gepi si sono così costituiti altri soggetti, alcuni espressamente voluti dal sindacato, che operano nel campo della job creation e della imprenditoria giovanile. Dotati di pochi mezzi e di scarse ed incerte risorse hanno generalmente ben operato. È tuttavia necessario da un lato una loro tipizzazione e un coordinamento e dall'altro dotarli di mezzi e risorse necessarie per renderli efficaci. Una componente essenziale del loro successo può essere la dimensione territoriale, tale organizzazione dei loro interventi appare la più idonea nel creare le condizioni di sviluppo. Assieme a questi interventi vi è anche la necessità di operare scelte di più lungo periodo. Il ritardo di un intervento diretto dello Stato nella politica industriale con il tradizionale strumento delle Pp.Ss. obbliga all'adozione di strumenti nuovi, sia sul piano industriale che finanziario. Un'efficace politica dei fattori (dalla scuola, all'energia, dai trasporti alle telecomunicazioni, ecc.) è compito prioritario dei programmi governativi, i quali debbono essere in grado di massimizzare, a questo fine, gli apporti degli Enti Locali, per una loro partecipazione alla delineazione dei programmi, e per la riforma della Pubblica Amministrazione. La domanda pubblica è sempre stata un forte fattore di promozione industriale, essa deve e può giocare, anche nelle nuove dimensioni comunitarie, come fattore di crescita. Il nostro paese ha tutto l'interesse ad affrontare, nella nuova prospettiva economica e sociale che si delinea con l'unione europea, la questione industriale. La prevalente visione economica e monetaria ha trascurato le implicazioni sociali degli obiettivi di convergenza. Implicazioni che sommavano i loro effetti ai tredici milioni di disoccupati già attualmente presenti nei paesi della comunità. Una politica industriale della Comunistà e l'adozione di fondi strutturali che la sostengono, sembrano oggi utopia davanti allo stallo delle decisioni comunitarie. Porre mano a questi aspetti vuol dire però dare sostanza sociale agli aspetti politici che sottendono alla costruzione europea. Se vuole mobilitare le coscienze, l'idea d'Europa deve essere connessa con l'idea di progresso nella solidarietà.

,P-ll,BIANCO il.IL ROSSO _,,,., •. . Unacrisistrutturale: occorreunaverasvolta di FaustoVigevani i fronte alla gravissima crisi industriale e occupazionale del Paese, senza precedenti nel D dopoguerra, è impressionante l'assenza pressoché totale di analisi delle cause e di proposte per affrontarla. La crisi che investe la possibilità di tenuta di centinaia di migliaia di posti di lavoro nell'industria (ma anche nei servizi e nell'agricoltura) appare così figlia di nessuno, e un fatale prodotto dei tempi. Le conseguenze di una così drammatica divaricazione tra la denuncia dei problemi e gli sforzi per affrontarli hanno precise e fondamentali responsabilità nel padronato e in particolare della Confindustria e del Governo. Il sindacato ha invece la responsabilità di una tardiva percezione della crisi che già nella fine del 1991con gli accordi sulla ristrutturazione di grandi imprese e i prepensionamenti di migliaia di lavoratori, segnalava problemi strutturali e di fondo, e non problemi di tipo congiunturali. Si è perso oltre un anno di tempo ma ancora non sono sufficienti le perdite di posti di lavoro registrate e le previsioni di ulteriori pesantissime perdite, per affrontare le questioni per quelle che sono. Per la Confindustria e l'insieme del padronato la riduzione del costo del lavoro prima e del costo del denaro poi hanno rappresentato gli obiettivi e le terapie per superare le difficoltà. Dopo il blocco delle dinamiche salariali e la riduzione del salario reale dei lavoratori, la riduzione del 6% dell'occupazione nella grande industria, la riduzione del costo del denaro e una sostanziosa svalutazione della lira, la situazione non solo non è migliorata, ma è più grave e pericolosa di prima. Ma ciò non basta a dimostrare che la crisi è strutturale, che c'è una debolezza organica dell'apparato produttivo del Paese e come tale la situazione va affrontata. Ci si inventa invece e si valorizzano mo12 difiche normative del mercato del lavoro che, di fronte alla recessione, potranno solo avere l'effetto di una maggiore riduzione dell'occupazione attraverso l'espulsione di manodopera più anziana e la parzialissima sostituzionecon manodopera meno qualificata ma a minor prezzo. Insomma la gravità eccezionale della situazione non sembra avere la forza di imporre una svolta, di imporre finalmente anche in Italia la scelta di una politica industriale degna di questo nome che affronti le questioni per quelle che sono, cioè le ragioni e le radici della nostra debolezza. Troppa economia protetta - anche industriale - senza concorrenza interna e internazionale, che divora risorse e produce inflazione. Scarsissima internazionalizzazione delle maggiori imprese e dei sistemi di impresa. Troppe imprese troppo piccole. Nessuna politica né dello Stato né delle imprese per l'innovazione. E ancora: diseconomie esterne derivanti da inefficienza della Pubblica Amministrazione, dai trasporti, dall'energia, dalle telecomunicazioni. In più una miseranda struttura delle istituzioni finanziarie, dalla Borsa al rapporto bancheindustria, soprattutto per un sistema caratterizzato da una abnorme presenza di piccole e piccolissime imprese, che per anni sono stati una risorsa, ma che oggi, nella nuova competizione europea e internazionale, sono un problema. E infine, ma non ultima, una struttura di impresa rigida, con troppi livelli gerarchici, che bruciano innovazione, competitività, consenso. Solo mettendo in campo politiche di mediolungo periodo a cui raccordare necessarie misure di emergenza non incoerenti o alternative ad una strategia di politica industriale, solo scegliendo strategie universalmente ritenute come fondamentali, investendo massicciamente nell'innovazione, nelle risorse umane e nella formazione, attuando relazioni partecipative e una politica della redistri-

,P.tL BIANCO lXILROS&) ilii•Ciliri buzione del lavoro e degli orari, è possibile evitare che tra un anno o due l'economia reale, la struttura produttiva dell'Italia siano definitivamente collocate tra i Paesi deboli, in un irreversibile declino prima economico e poi sociale e civile. Senza di ciò peraltro le stesse misure di risanamento del bilancio pubblico falliranno e non tra due o tre anni, ma tra due o tre mesi. Senza crescita e senza lavoro non si risana proprio nulla. Ignorare l'economia reale non è possibile. Quando ciò avviene, essa si vendica. È quello che sta accadendo. È questo che occorre cambiare. Illavordoifficile e l'impotenzdaellapolitica di Luigi Viviani occupazione è diventata, in questa difficile transizione che vive il nostro paese, l'ambito LI ed il segno dei limiti e dell'impotenza della politica. Lo stesso Governo Amato, che pure in questi mesi ha dimostrato una efficace capacità riformatrice, appare incerto ed incapace a mettere in campo adeguate politiche del lavoro. Ci troviamo nel mezzo di una crisi inedita in cui, una miscela di recessione, inflazione e deindustrializzazione sta determinando uno squilibrio crescente tra domanda ed offerta di lavoro a cui non siamo preparati ne sappiamo come farvi fronte con efficacia. Gli aspetti più evidenti che emergono sul mercato del lavoro sono la disoccupazione industriale, specie al Centro-Nord, e l'accresciuta disoccupazione giovanile al Sud. Lo storico dualismo Nord-Sud risulta così accentuato tanto che mentre dieci anni fa il tasso di disoccupazione meridionale risultava doppio di quello del Nord, ora è diventato superiore a tre volte, ed in alcune zone arriva a quattro volte il tasso di disoccupazione settentrionale. Il nostro paese è costretto ad affrontare questa difficile sfida in condizioni del tutto svantaggiate. L'integrazione internazionale della nostra economia, consolidata dall'accrescersi dei vincoli imposti della politica comunitaria, ci impedisce anche di pensare ad uno sviluppo fuori da una ripresa trainata dai paesi più torti. 13 Nello stesso tempo i vincoli derivanti dell'esigenza primaria di risanamento della finanza pubblica rendono, in larga parte, impraticabili, al di là dei loro effetti incerti, le tradizionali politiche keynesiane di espansione della domanda aggregata. Gli stessi ammortizzatori sociali, che nel nostro paese sono stati abbandonati e diffusi, sono diventati un costo insostenibile ed un ostacolo alla mobilitazione soggettiva dei lavoratori per cogliere le poche opportunità di lavoro disponibili. Siamo inoltre tra i paesi europei meno dotati di sperimentate politiche attive del lavoro tanto dal lato dell'offerta che della domanda. Il nostro sistema formativo è tra i più scassati d'Europa tanto che ci portiamo dietro ancora i tristi primati della più bassa età dell'obbligo scolastico, del più alto tasso di dispersione scolastica, di un grado di scolarizzazione nel mondo del lavoro da società preindustriale visto che, ancora oggi, quasi un lavoratore su tre non supera la quinta elementare. La formazione professionale è al collasso e non riesce, in tempi di penuria come questi, a spendere nemmeno le risorse a disposizione. Le strutture centrali e periferiche del collocamento risultano sempre più un'enclave di burocrazia sovietica in una economia di mercato. Le politiche di promozione dell'imprenditorialità e di job creation, se escludiamo qualche eccezione come la Legge 44 sull'imprenditorialità giovanile nel Sud, sono pressoché inesistenti.

i>JL BIANCO l.XILROSSO ihi•Ciliil La politica industriale è assente da oltre un decennio dall'agenda dei nostri governi. Potremmo continuare a lungo in questo doloroso elenco dei nostri mali ma credo che già quelli indicati danno il senso di quanto le omissioni della politica passata pesino sul presente e costituiscano ostacoli immani per una efficace lotta alla disoccupazione nell'immediato futuro. Nonostante tutto questo, che va tenuto presente per non essere velleitari, siamo ben lontani dal considerare impossibile una politica positiva a sostegno dell'occupazione. Essa può nascere solo da una sintesi efficace tra politica economica, politica industriale e politica del lavoro. Una prima esigenza è rappresentata dalla necessità di una riconsiderazione generale della politica economica e sociale del paese. In particolare sembrano urgenti due aspetti che, a mio avviso, condizionano pesantemente la nostra strategia di politica economica generale: la qualità della politica di risanamento del debito e la politica di ingresso nell'Europa comunitaria. Circa il primo aspetto è tempo di interrogarci sul fatto che un ammontare degli interessi del debito pari a 200.000 miliardi stanno determinando effetti devastanti tanto in termini di ripartizione del reddito che di dissanguamento del sistema produttivo. In tal modo il paese sta lavorando e facendo sacrifici solo per aumentare a dismisura l'area della rendita che diviene sempre più incompatibile con qualsiasi ipotesi efficace di risanamento della finanza pubblica. In altri termini lo Stato deve risolvere una contraddizione tutta interna alla sua politica per cui chiede pesanti sacrifici al cittadino in qualità di lavoratore e consumatore e, nello stesso tempo, offre allo stesso, in qualità di risparmiatore, rendite favolosesui titoli pubblici, che non trovano riscontro in tutti gli altri paesi europei. L'altro aspetto che aggrava le conseguenze del primo è rappresentato dalle contraddizioni della nostra politica comunitaria. Siamo contemporaneamente il paese più rigorista nell'applicare i tempi e le modalità della politica di convergenza decisa a Maastricht ed il più lassista ed inefficiente come negoziatore nella difesa dei propri interessi e come utilizzatore delle risorse comunitarie che gli sono assegnate. È tempo perciò che queste politiche diventino oggetto di un dibattito consapevole di tutto il paese e non vengano lasciate alle scelte dei pochi ad14 detti ai lavori, operando le necessarie correzioni per creare condizioni più favorevoli a cogliere le prevedibili opportunità espansive e di incremento dei posti di lavoro. Sul vuoto della nostra politica industriale si sta discutendo da tempo ma le scelte conseguenti sono ben lontane dalla ricostruzione di una politica efficace di rilancio del nostro sistema. Le uniche scelte che hanno determinato un qualche effetto positivo sono le poche leggi a sostegno delle piccole imprese, anche se dotate di risorse insufficienti, mentre siamo nettamente in ritardo in tutte le politiche strutturali da quelle della ricerca a quelle dei servizi reali, della localizzazione territoriale, del credito. In questa situazione lo stesso doveroso tentativo di accelerare ed orientare la domanda pubblica, ammesso che riesca, è destinato a determinare effetti di limitata efficacia. Appare poi maèroscopico il fatto che di fronte ad un processo di privatizzazione annunciato del sistema delle partecipazioni statali manchi una qualsiasi politica di transizione che non faccia scomparire un ruolo dello Stato, ancora azionista di maggioranza, nelle scelte di ristrutturazione in corso. Infine anche sul terreno più specifico della politica attiva del lavoro le scelte recenti del governo non hanno cambiato un quadro di povertà e di inadeguatezza che ci portiamo dietro da tempo. Il Ministro del lavoro è alla ricerca di un qualsiasi mix di interventi che dimostrino che, comunque, si sta facendo qualcosa. In queste settimane stiamo infatti assistendo al proliferare di provvedimenti legislativi frammentari ed erratici (quasi un decreto per ogni punto di crisi) che intervengono essenzialmente in due direzioni. Da un lato con l'estensione degli ammortizzatori sociali e la flessibilizzazione del rapporto di lavoro e, dall'altro, con interventi anticiclici nei punti di crisi cercando di orientare in tal senso la domanda pubblica. Tuttociò in un contesto di assoluta insufficienza di risorse a disposizione e di precarietà della strumentazione prevista. Basti pensare che solo 1350miliardi sono risorse aggiuntive direttamente destinate alle politiche del lavoromentre la stessa Task-farcepresso la Presidenza del Consiglio, che era stata presentata come lo strumento nuovo per accelerare e orientare gli investimenti di reindustrializzazione, in realtà

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==