,PJI, BIANCO lXltROSSO • 111 #0111 Nellapoliticaincrisi il Psi è indoppioritardo D irò subito che, a mio modo di vedere, non esiste più in Italia spazio e prospettiva per «un socialismo rinnovato». Piuttosto, mi sento di propendere per la seconda tesi: «la nuova sinistra deve essere una costruzione tutta nuova». Il che non significa che la nuova costruzione non possa e non debba utilizzare molti mattoni vecchi, o meglio antichi, tra i quali quelli provenienti dalla tradizione del socialismo democratico. La necessità, a mio giudizio, di una sinistra «tutta nuova» deriva da un «fallimento del movimento socialista democratico» non tanto sul versante, per così dire «ideologico» - quello, per intenderci, che fariferimento al secolare dibattito sul rapporto tra politica ed economia o tra Stato e mercato -, bensì su quello, più modesto, ma non meno rilevante, della politicapolitica, che in Italia si è di fatto identificata, negli ultimissimi anni, col problema di una revisione profonda, dopo la fine del comunismo, del rapporto tra politica e società. Se sul primo versante, quello «ideologico», la tradizione socialista democratica, comprendendo in essa non solo l'area culturale e politica che ha fattoe fa riferimento a Psi e Psdi, ma anche l'anima riformista del Pci-Pds, ha potuto constatare, con i fatti dell'89, il successo della propria scommessa e il simmetrico fallimento di quella comunista, sul secondo versante, quello della ridefinizione del rapporto tra politica e società, quella medesima tradizione sta invece oggi registrando un sostanziale fallimento. Il principale argomento che può essere invocato a sostegno di questa opinione è, ovviamente, quello dei dati elettorali: in una prima fase, si è assistito al fenomeno di Giorgio Tonini di un riequilibrio a sinistra con travaso solo parziale di consensi ex-comunisti ai partiti socialisti; poi si è arrivati all'emorragia simultanea di suffragi, sia dal Psi che dal Pds, col risultato che l'area che fa riferimento all'Internazionale socialista appare oggi nel suo insieme in drastico ridimensionamento. La spiegazione di questo paradosso, che vede punita una tradizione politica proprio quando arriva ad assaporare il gusto della vittoria in una contesa ideologica durata un secolo, va probabilmente ricercata nella peculiarità del caso italiano, storicamente «di frontiera» tra Occidente democratico e Oriente comunista. Una peculiarità che ha prodotto, negli ultimi anni, in modo assai più evidente che in altri paesi europei, una compresenza dei fattori di crisi «endogeni» della democrazia occidentale con quelli di crisi della politica da paese dell'Est. Tra i fattori endogeni, basti richiamare: 1. La crisi, tipica delle società complesse, nelle quali la politica tende a diventare subsistema parziale, perdendo la sua centralità, dell'identificazione tra democratizzazione della politica e democratizzazione del potere; 2. Il logorarsi, proprio di una società dei «due terzi», del nesso tra principio di maggioranza e garanzie del segno socialmente progressivo delle politiche; 3. Il venir meno dello stesso concetto di sovranità nazionale, insidiato da un progressivo spostamento del potere a livello sovranazionale. Su tutti e tre questi fronti risultano particolarmente esposti i sistemi a centralità parlamentare. Il parlamentarismo finisce anzi per enfatizzare questi problemi. In primo luogo, esso rappresenta indubbiamente la forma di governo meno efficiente, col risultato di aggravare le debolezze della politica dinanzi alla forza e all'autorevolezza di altri sottosistemi, a cominciare da 40 quello economico. Secondariamente, il parlamentarismo (tanto più nella sua versione proporzionale pura), incentivando la rappresentanza degli interessi particolari, finisce col premiare la coalizione di quelli forti, a tutto svantaggio di quelli deboli. Infine, la debolezza di una legittimazione diretta degli esecutivi priva la politica sovranazionale, a tutt'oggi appannaggio di rapporti bilaterali e multilaterali tra governi, di autentica legittimità democratica. In questo quadro, non sorprende che la democrazia italiana sia tra quelle maggiormente in crisi, di identità e di funzione, nel panorama occidentale. L'Italia è infatti l'unico dei grandi paesi dell'Occidente industrializzato ad essere tuttora governato da un sistema istituzionale parlamentare proporzionale puro. La principale conseguenza di questa anomalia sta oggi nel fatto che, in un contesto di accelerazione dell'integrazione europea, l'Italia finisce per giocare un ruolo sostanzialmente marginale, proprio in quanto il suo sistema politico la colloca al centro di quella che Duverger ha definito l'Europa dell'«impotenza», contrapposta all'Europa della «decisione», rappresentata dai paesi dotati di istituzioni forti. Non mancano poi effetti pesantemente negativi sui rapporti tra società e politica: basti pensare alla mole che ha ormai raggiunto, nel nostro Paese, il debito pubblico, emblema di una cattiva qualità della politica, sia sul piano dell'efficienza che su quello dell'equità. Il problema principale che l'Italia ha oggi davanti a sé - e non da oggi - è dunque quello della riforma del sistema politico. È stato un merito storico indiscutibile della cultura politica socialista democratica aver posto in modo deciso al centro del dibattito politico questa questione, spazzando via i cascami della vecchia cultura con-
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