.P.tL BIANCO \Xli. ROS.SO ., .• ,.•• Occupazione: cronaca di unacrisi di Gabriele Olini Atto primo: primi segnali La causa prossima dell'accentuata fase di difficoltà occupazionale nel nostro paese è nel rallentamento produttivo, che inizia nel corso del 1989. Da allora la crescita economica frena vistosamente, particolarmente nell'industria, e tutti gli indicatori del clima di fiducia degli operatori economici danno segnali negativi. Anzi all'inizio, proprio gli indicatori occupazionali sembrano andare in controtendenza ed, almeno per qualche tempo, continuano a svilupparsi favorevolmente, a parte la veloce crescita degli interventi ordinari della Cassa Integrazione Guadagni e le richieste di prepensionamento di qualche grande gruppo. In effetti l'ultima fase espansiva trascina negli anni successivi positivi sviluppi occupazionali. Il biennio 1990-91conosce una crescita della domanda di lavoro, nonostante la decelerazione dal ciclo produttivo; si determina la situazione opposta rispetto a quanto avvenuto del 1985 al 1989, allorché la crescita sostenuta del Pil non si traduceva in un consistente aumento dell'occupazione. Ancora nel 1991vi è, da una parte, una crescita del numero degli occupati di circa 200 mila unità ed il ritorno, dopo molto tempo, del tasso di disoccupazione sotto l'll %, dall'altra l'aumento del 25% della Cig. Si sovrappongono così immagini tranquillizzanti ad allarmate previsioni di eccedenze di manodopera, con un quadro complessivo che appare contraddittorio ed assolutamente non univoco. Il mercato del lavoro presenta in quell'anno una situazione a macchia di leopardo; crescita occupazionale nel terziario e riduzione nell'industria, con situazioni, all'interno di quest'ultima, molto articolate per settore (migliori per le produzioni di beni finali di consumo, peggiori per i beni di investimento),per area territoriale (qualche buon segnale per il Mezzogiorno, ma anche per l'industria 11 del Nord Est, mentre difficoltà consistenti nel triangolo industriale tradizionale e per le micro imprese marchigiane). Le statistiche dell'Istat segnalano anche impatti diversi tra grande industria, che pare interessata da una nuova fase di ristrutturazione, e piccola e media industria, che sembra continuare ad assorbire manodopera. Ma che cosa determina la crisi recessiva? Mi pare riduttivo interpretare questa come conseguenza di una drammatica caduta dei margini di profitto. La ridotta profittabilità si verifica certamente in ragione della crisi, delle cadute della domanda e della produttività collegate al rallentamento produttivo; ma il calo dei margini è un effetto, un'ulteriore aggravente della crisi, più che la sua origine. Altrimenti non si riesce a spiegare perché l'inversione congiunturale si determina nel momento in cui i profitti sono elevati e la loro quota sul valore aggiunto al livellomassimo, appunto nel biennio 1988/89. L'innesco della crisi avviene non sul versante del commercio estero, che risente positivamente degli effetti di trascinamento dell'unificazione tedesca, ma da quello degli investimenti; le attese diventano fortemente negative al riguardo in coincidenza con l'invasione irakena del Kuwait (estate 1990). Si sviluppa in quei giorni una profonda sfiducia sulla capacità del nostro paese a porre riparo alle tante emergenze, che la caratterizzano (istituzionale, di finanza pubblica, per la criminalità). Le incertezze maggiori si sviluppano soprattutto in relazione al processo di integrazione europea; la distanza tra i nostri parametri e quegli obiettivi, che si vanno delineando, esplicita l'inadeguatezza del nostro quadro politico nel governare la transizione. E gli investimenti sono la variabile più sensibile ai cambiamenti del clima di fiducia e la più pesantemente colpita dall'incertezza; è anche la variabile che, determinando la capacità produttiva, ha maggiore impatto nel medio
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