-"!J- BIANCO lXILROSSO l•Xi®•MII Oltrela crisidi liberismo e comunismo: riformismovero D avvero in Italia il termine «socialista» non avrebbe più gran senso e la socialdemocrazia in Europa sarebbe tutt'al più una nostalgia? In molti si esercitano a dimostrare che così stanno le cose. Si tratta del resto di una operazione politica e intellettuale già tentata a più riprese nel corso degli ultimi decenni. Tra la fine degli anni '60 e quella degli anni '80, da varie parti e correnti era venuta una confutazione dell'esistenza stessa di una soggettività teorica autonoma della socialdemocrazia. Sia dal versante radicale e neo-marxista che da quello liberaldemocratico (esemplare la riflessione di Dahrendorf) si era venuta affermando la tesi della coincidenza tra crisi del keynesismo e crisi della socialdemocrazia, intesa quest'ultima, come semplice variante sociale della strumentazione keynesiana. Radicalismo e neoliberismo convergevano intorno alla tesi di un esaurimento definitivo del riformismo socialdemocratico ridotto ad un insieme di contenuti definitivamente svuotati dalla fine dell'età d'oro keynesiana. Complessi apparati teorici e sociologici sembravano fornire le coordinate di una teoria critica della dialettica del benessere che spostava il pendolo dei comportamenti collettivi verso un rigetto del solidarismo, dell'interventismo redistributivo, dell'egualitarismo anche nella versione democratica (la teoria della cittadinanza). Insomma, verso i fondamenti di una cultura socialdemocratica. Si trattava, nella sostanza, del rilancio in grande stile, di alcuni luoghi classici della critica liberale del socialismo che, in molti autori, venivano ripresi con un taglio radicale e, persino, di sinistra. In più di un caso questa critica neoliberale della socialdemocrazia sembrava saldarsi coerentemente con la ripresa di UmbertoRanieri della teoria dei limiti del riformismo come versione aggiornata della tradizionale critica di sinistra della socialdemocrazia. La tesi più in voga era quella dell'identificazione piena tra socialdemocrazia e keynesismo e la conseguente conclusione dell'esaurimento della prima con il venir meno dei margini delle tradizionali politiche redistributive. Gli anni ottanta con il successo dei partiti conservatori e, l'ondata di riflusso elettorale delle socialdemocrazie storiche, con il concomitante esplodere del fenomeno «verde», sembravano fornire la controprova evidente della fine del «secolo socialdemocratico». L'autonomiaculturale e ideale del riformismo, insomma, sembrava invalidata dalla crisi evidente dei parametri cui esso veniva ridotto dall'offensiva polemica neoliberale: il suo orizzonte nazionale; lo statalismo; la tesi della crescita illimitata; l'industrialismo. All'avvio degli anni novanta la situazione appare quasi rivoltata come un guanto: arretra il neoliberismo; vanno in crisi le ricette monetariste e le sofisticate «teorie dell'offerta» (supply side) con cui si era giustificato il ritorno dell'incontenibilità degli «spiriti vitali» del capitalismo; tornano evidenti i costi delle politiche antisolidaristiche e individualistiche con cui si è minato l'edificio più possente del «secolo socialdemocratico»: lo stato sociale. Il mondo del globalismo e dell'interdipendenza, lungi dal significare la fine dell'interventismo ripropone un'alternativa drammatica tra concertazione e anarchia dissolvente dei principi coesivi della comunità internazionale. Il meccanismo liberista non solo ha operato una redistribuzione a rovescio, ma ha amplificato i costi di un tipo di sviluppo che torna ad essere segnato dallo spettro della recessione, della stagnazione, del conflitto Nord/Sud. In questo contesto di crisi della ricetta neoliberale si è verificato, alla fine degli anni 32 '80, l'evento dirompente dello sgretolamento del comunismo. La mia opinione è che la doppia crisi del liberismo e del comunismo ripropongono lo spazio d'espressione, teorico e politico della socialdemocrazia come risposta alla deriva dell'antisolidarismo conservatore. Ma qui insorge l'interrogativo di fondo: nella cultura del riformismo socialdemocratico vi sono i contenuti di una risposta adeguata ai dilemmi delle società contemporanee? È chiaro che il successo della sinistra si gioca interamente sulla risposta a tale interrogativo. Occorre provarsi ad enucleare le idee intorno a cui può svilupparsi il lavoro per un nuovo e universale progetto socialista. Il nucleo di tale progetto potrebbe essere costituito da quel «grappolo» di idee normative che già costituivano l'ossatura del programma del «nuovo inizio» lanciato dall'Internazionale Socialista nel Congresso del Centenario del 1989: la ricerca di uno statuto cooperativo nelle relazioni internazionali; l'idea dello sviluppo sostenibile nella duplice direzione della riconversione ecologica dell'economia del benessere e della redistribuzione Nord/Sud; il ripensamento delle politiche solidaristiche intorno ai criteri di un rilancio moderno della teoria della cittadinanza; la democratizzazione come ambito in cui si esaurisce il contenuto ultimo delle opzioni socialiste. A ben vedere vi è, in questo reticolo di idee orientative, una commistione felice di luoghi classici della cultura riformista ripensati alla luce delle novità intercorse con la fine di quella che è stata l'età d'oro dello sviluppo. Ma un punto vorrei sottolineare. Mentre la tradizione rivoluzionaria, e comunque non riformista, è rimasta confinata entro la definizione del socialismo come alternativa ad un capitalismo immaginato come ine-
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