{)lL BIANCO l.XtLROSSO ih•®hitl Neldesertodel dopo-ideologie unsocialismuomanisticnouovo - I - 1crollo del comunismo ha creato un «deserto» che, a parere mio, ma non solo (basti pensare alle ripetute prese di posizione di Giovanni Paolo II) non può essere occupato da un liberalismo dalle vecchie connotazioni. La disfatta del comunismo non può, ovviamente, cancellare gli ideali di equità e di giustizia che sono stati a fondamento di un movimento che ha coinvolto centinaia di milioni di individui in diverse parti del mondo, anche se la loro pratica realizzazione ha registrato un tragico fallimento. Questo è vero in generale e lo è in particolare in Italia dove il Pci non solo ha per lungo tempo interpretato, seppure con limiti anche gravi errori e contraddizioni, le aspirazioni di vasti strati popolari ma ha anche contribuito a colmare, o almeno a restringere notevolmente, il fossato che divideva i lavoratori, e in genere i ceti più deboli, dallo Stato. Basti un esempio per tutti: l'atteggiamento di fermezza nei confronti del terrorismo. Chi deve occupare questo deserto? Un socialismo rinnovato, dal «volto umano», per usare una definizione cara a Dubcek, o qualcosa di assolutamente nuovo, anche dal punto di vista nominalistico? Io propendo per questa seconda ipotesi. Non solo e non tanto perché il termine «socialista»abbia risentito in modo profondamente negativo dell'uso fattone dai regimi dell'Est (il «socialismo reale»); non solo e non tanto perché non mi pare che le socialdemocrazie europee vivano una stagione esente da difficoltà; non solo e non tanto perché anche in Italia il partito socialista vive difficoltà, generale da ragioni diverse, che hanno prodotto una crisi, per certi aspetti, più di immagine che di sostanza politica. Ma perché ritengo che esso, pur con il suo carico di nobili tradizioni e, anche, dai successi da parte delle socialdedi Gianpietro Borghini mocrazie europee, costituisca un limite ad un'aggregazione più ampia oggi necessaria, soprattutto nel nostro Paese. Il fatto stesso che il termine «socialista» sia staio scartato nel processo di trasformazione del Pci in Pds (a prescindere dai deludenti risultati ottenuti) mi pare indicativo di questa esigenza di ampliare uno schieramento democratico, progressista, autenticamente riformista. È persin ovvio ricordare che la crisi del nostro Paese che vede contestala addirittura la sua unità, raggiunta faticosamente appena centotrent'anni fa. È una crisi di valori, di identità, alimentata da particolarismi, da egoismi, dalla ricerca di soluzioni individuali, di gruppo, di corporazione o di singole aree. Una crisi acuita anche dalle risposte, insoddisfacenti che le classi dirigenti hanno dato e danno alle legittime richieste di equità, di giustizia sociale, di efficienza da parte dei cittadini. Lo Stato, nelle sue diverse articolazioni, dal centro alla periferia, appare sempre più come una controparte che ad una crescente esosità fiscale, oltre tutto ingiustamente distribuita, non sa far corrispondere un'adeguata erogazione di servizi, dalla sanità alla scuola (e questo, per quanto ovvio possa sembrare la constatazione, è alla base del successo della protesta leghista). D'altra parte l'idea di uno stato sociale, di una società che non si affidi solo ai meccanismi di un liberismo assoluto si fa strada anche in Paesi, come gli Stati Uniti, dove si è pensato che tutto dovesse essere affidato alle leggi del mercato. La villoria di Clinton è significativa e rivela una forte e diffusa volontà di cambiamento. Ma, almeno in Italia, lo staio sociale ha bisogno di una radicale revisione. Non di tagli, che spesso si traducono in un ulteriore svantaggio per i più deboli perché, come mi pare dicesse don Milani, «nulla è 22 più ingiusto che fare parti uguali tra disuguali». Non di tagli, ma di razionalizzazione, di risparmi, di concorso del privalo sociale. Con il Welfare State si sono creale nel nostro Paese solide burocrazie per le quali, purtroppo, conta più la propria conservazione, il formale rispetto di leggi, regolamenti e norme che l'efficienza e l'efficacia dell'intervento. Burocrazie che, fra l'altro, soffrono di rigidità e schematicità che rendono molto difficile e vanificano gli sforzi che si compiono per adeguare i servizi, le prestazioni alle mutate esigenze dei cittadini e alle stesse innovazioni tecnologiche. E, invece, se c'è qualcosa che deve essere flessibile è proprio l'organizzazione dei servizi sociali perché sia possibile decentrar li, variarne composizione e metodi a seconda delle necessità. Una premessa indispensabile per una riorganizzazione dello stato sociale, e dell'intera pubblica amministrazione, deve essere la privatizzazione del rapporto di lavoro.Ci sono indubbiamente dei rischi, ma questi non possono impedire che si cambi una situazioneinsostenibile nella sua staticità e nel suo più deteriore e velleitario egualitarismo. Dello stato sociale dobbiamo conservare l'aspirazione alla giustizia, alla solidarietà, alla trasformazione della carità - intesa questa nel suo più nobile significalo di compartecipazione alla vita dell'altro,ai suo bisogni - in servizio che, mi pare importante, non debba essere necessariamente prestato solo dallo Stato medesimo garante della qualità degli interventi e della loro programmazione. In Italia abbiamo anche bisogno di una profonda rivoluzione nei rapporti Ira cittadini e pubblica amministrazione. Una rivoluzione che, a mio parere, si può sintetizzare in questi termini: il passaggio dei cittadini da «utenti» a «clienti», che fra l'al-
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