ISS1120-7930- SPED.ABB.POST. - GR. mno% ~!LBIANCO lXILROSSO MENSILE DI DIBATTITO POLITICO Bicameralen:onbastano finteriforme G li avvenimenti delle ultime settimane confermano che il nostro sistema politico ha definitivamente esaurito la sua capacità di «intelligenza» ed anche di «astuzia». Gli anni della Repubblica sono stati, sotto il profilo dei rapporti e degli equilibri politici, un seguito ininterrotto di «statidi necessità». Questa regola ferrea, che ha funzionato fino al crollo del comunismo, oggi non è più in grado di ispirare una pratica politica condivisa. Né basta a rilegittimarla il pur preoccupante dilagare del leghismo. 34 ANNO III0 • NOVEMBRE1992 • L. 3.500
IN QUESTONUMERO EDITORIALE *** Bicamerale: non bastano finte riforme pag. 1 ATTUALITÀ Ettore Rotelli Un sistema bipolare, un regime presidenziale, uno stato federale pag. 5 Tiziano Treu Spezzare il connubio politica-amministrazione pag. 11 Pippo Morelli La solidarietà nel!' economia e nello Stato pag. 14 DOSSIER C'è un futuro. per il socialismo italiano? Aldo Aniasi Sinistra storica e neo-sinistra sociale. È il momento di camminare unite pag. 20 Gianpietro Borghini Nel deserto del dopo-ideologie un socialismo umanistico nuovo pag. 22 Gian Primo Cella C'è ancora un futuro per il socialismo democratico? pag. 23 Carlo Ciliberto Contro il nuovo Medioevo un socialismo «nuovo» pag. 25 Enzo Friso Altro che fine del socialismo! Ora è il momento di inverarlo pag. 26 Paola Gaiotti de Biase Oltre le ceneri del Pci e Psi: una nuova «sinistra» pag. 28 Nereo Laroni Un socialismo riformato per tutelare speranze reali pag. 30 Umberto Ranieri Oltre la crisi di liberismo e comunismo: riformismo vero pag. 32 Carlo Stelluti Prima di passar la mano il Pds si unisca al Governo pag. 33 Giuseppe Tamburrano Il socialismo è vivo. Il Psi, per ora, è malato pag. 35 Silvano Veronese Coniugare da capo libertà, uguaglianza e fraternità pag. 37 Luigi Vertematl È morta l'utopia comunista. Vive il socialismo solidale pag. 39 Fausto Vigevani Socialismo antico e nuovo: uguaglianza, libertà, solidarietà pag. 41 L'EUROPAE ILMONDO Studi del Parlamento Polonia: acque meno agitate? pag. 43 europeo Hanna Suchocka, il nuovo Primo Ministro della Polonia pag. 49 INTERVENTI Un'alleanza democratica per governare il Trentino pag. 51 Antonio Salvatore Il finanziamento dei partiti in Italia e all'estero pag. 54 VITADELL'ASSOCIAZIONE ReS Seminario: Per continuare a fare politica (Spello 30/31 ottobre 1992) pag. 55 Pierre Carnitl Risposte alla crisi del sistema: riforme e ricambio politico pag. 56 Stefano Ceccanti Elezione diretta e doppio turno uninominale pag. 59 Immagini: dalla storia del socialismo italiano
i.)JI. BIANCO l.XILROSSO 1MUl 111 Al1IH Ciò di cui c'è quindi assoluto bisogno è la ridefinizione dello statuto della politica. Mentre pretendere di guadagnare un'uscita cercando di redistribuire i ruoli dentro il vecchio sistema appare, oltre che inutilmente logorante, anche del tutto illusorio. Non può non preoccupare quindi che le ipotesi di riforme finora emerse dalla Commissione Bicamerale, sul punto essenziale della forma di governo e del connesso sistema elettorale, lascino indenni le cattive abitudini dei partiti e la qualità scadente del loro rapporto con le istituzioni. Al momento in cui scriviamo infatti la Commissione ha bocciato con i voti di Pds, Dc e Psi l'elezione diretta sia del capo dello Stato che del Premier e ha anche definito i criteri per la riforma elettorale. Malgrado il tentativo di alcuni di tenere assieme cose contradditorie come governo parlamentare e sistema elettorale uninominale maggiorita - rio (che senza presidenzialismo ai guai attuali ag- «La repressionegiolittiananon fermerà.il socialismo»da «L'Asino»1, 7-9-1893. 3 giungerebbe solo rischi di frammentazione localistica della rappresentanza) tutto lascia supporre che alla fine approderà all'elezione del Presidente del Consiglio da parte del Parlamento e l'introduzione di un premio di maggioranza che incoraggi le coalizioni. Ma poiché questo modello, come ha ricordato con giusta preoccupazione Barbera, è già risultato fallimentare nella IV Repubblica francese, non si riesce a capire perché dovrebbe funzionare in Italia. Al punto in cui siamo ci si deve quindi chiedere se questi partiti pur consapevoli della decadenza del sistema politico, ma, per mille ragioni, incapaci di autentico rinnovamento possano diventare gli inventori di regole nuove che li costringano ad essere ciò che non vogliono, o non riescono ad essere. La nostra risposta è che senza un appropriato e diretto coinvolgimento dei cittadini questo risulterà del tutto improbabile. * • *
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~ll~BIANCO '-XII~ IlOSSO AITUALITA Unsistembaipolare, unregimperesidenziaulne,oStatofederale di Ettore Rotelli 1. Anche in tema di riforme istituzionali ed elettorali, in discussione nella apposita commissione bicamerale, importa stabilire qual è il problema da affrontare e risolvere. È da escludere anzitutto che sia quello di evitare con una riforma elettorale il referendum. Quest'ultimo vuole la elezione della maggior parte dei senatori col collegio uninominale a unico turno (la parte restante su base regionale ancora proporzionale) e quindi nessuna riforma elettorale, che non riguardi (anche) il Senato e non preveda tale collegio uninominale, sarebbe idonea giuridicamente ad evitarlo (a meno di non ritenere che pure per l'Ufficio centrale della Cassazione sia sufficiente qualunque riforma elettorale - anche della sola Camera - che il comitato referendario e, per esso, il suo presidente trovino di proprio gusto). Ora, in ordine al Senato, vi sono soltanto due approcci razionali possibili, entrambi implicanti la revisione costituzionale (e i suoi tempi): o la soppressione pura e semplice o la trasformazione in Camera delle Regioni. Ma quest'ultima ipotesi non consiste esclusivamente in una modifica del sistema elettorale, dovendo collegarsi, nella composizione, pure alle Regioni come tali (inoltre non ha senso autonomistico, né, tanto meno, federalistico, *Intervento al convegno del Gruppo socialista del Senato (17/11/92) 5 un Senato di queste Regioni o di quelle, praticamente le stesse, del progetto del comitato della bicamerale). Insomma, anche dal punto di vista della questione del Senato, non c'è riforma elettorale antireferendum, la quale non presupponga riforma istituzionale (e sarebbe pericoloso, oltre che subdolo, anticipare con legge l'aspetto di riforma elettorale di una revisione costituzionale di là da venire, con o senza la riserva mentale di non farla mai venire). È da escludere altresì che l'obbiettivo di unariforma elettorale possa essere il ricambio o la frequenza o la facilità del ricambio delle leadership politiche, delle dirigenze interne dei partiti (presenti o «in fieri») e quindi una specie di «surrogato» della incapacità di autoriforma. Infatti il ricambio, la cui esigenza viene chiamata oggi in Italia a motivare il passaggio dalla «proporzionale» al collegio uninominale (in questo caso per la Camera dei deputati), non solo non è di per sé garanzia di miglioramento o di miglior rendimento, ma, soprattutto, si connette nelle altre democrazie e non può non connettersi in ogni democrazia al funzionamento complessivo del sistema politico e, in particolare, al suo bipolarismo, per il quale è sostitui-
,P_fLBIANCO lXILROSSO iliAMCilld ta la leadership del partito perdente in modo che il partito antagonista possa essere affrontato a livello nazionale e/o a livello locale un'altra volta con armi nuove). Oltre tutto non è affatto provato che un sistema elettorale, nella specie il collegio uninominale (a unico turno), provochi il ricambio: lo provoca o lo può provocare se si coniuga e si applica a un sistema politico bipolare. 2. Se così è, il problema delle riforme elettorali e istituzionali non consiste né nell'evitare i referendum, né nel determinare la «successione» generazionale: la richiesta dei primi e l'assenza della seconda non sono altro che riflessi della anomalia di funzionamento del sistema politico italiano. La storia si fa con i «se», contrariamente a quel che vuol far credere la storiografia crociana (per la quale tutto ciò che è reale è razionale). Taleanomalia non è imputabile né alla Costituzione repubblicana, né alla «proporzionale» (scelta nel 1919, semplicemente confermata nel 1946 e ratificata di nuovo all'Assemblea Costituente): a) il passaggio alla proporzionale (1919) in sequenza al suffragio universale, non a caso mantenuto a collegio uninominale all'atto del suo avvento (1912), fu più di interesse del «polo» cattolico nascente (il P.p.i., 1918), che del «polo» socialista, il primo e il prevalente fra i partiti organizzati (la scissione di Livorno non sarebbe avvenuta prima del 1921): «se», come allora in Gran Bretagna, il suffragio universale si fosse accop'piato anche in Italia alla conservazione del collegio uninominale (magari reso a unico turno, anziché doppio), i due «poli» maggiori o addirittura esclusivi sarebbero stati (nel dopoguerra) il liberale in senso lato e il socialista (con o senza repubblicani e radicali), con l'onere per i cattolici-popolari o di confluire, separandosi, in entrambi gli schieramenti o di restare subalterni nell'alleanza con l'uno o con l'altro o di sostituire, prima o poi, il «polo» liberale (non certo quello socialista); b) la carta costituzionale, con il suo esplicito regime parlamentare e col suo formale agnosticismo in materia elettorale, e la legge proporzionale nuovamente applicata non hanno favorito la bipolarizzazione del sistema politico italiano, ma di sicuro non l'hanno impedita. «Se» il «polo» di sinistra si fosse caratterizzato prevalentemente come «socialista» e non come «comunista» (il Pci è diventato il maggior partito dopo la scissione socialista del 6 gennaio 1947), cioè se non fosse stato privo di legittimazione finché avesse continuato a definirsi in tal modo, cioè per oltre quarant'anni (la e.cl. conventio ad excludendum non è stata altro), il sistema politico italiano avrebbe potuto essere bipolare, pur con la Costituzione e la proporzionale. 3. Il problema delle riforme istituzionali ed elettorali non consiste neppure nell'andare alla scoperta della miglior forma di governo (che non esiste) e del miglior sistema elettorale (che non esiste), né, ancor meno, nell'inventare col genio italico - dopo due secoli di storia costituzionale - nuove forme di governo, combinate con nuovi sistemi elettorali, per il XXIsecolo e per il terzo millennio. L'elezione popolare diretta del Primo Ministro, per esempio, è una vecchia idea del prof. Galeotti, accolta o subita dal prof. Miglio nel gruppo di Milano nel 1983 fors'anche per non restarvi solo, presa in considerazione già allora con lui dal prof. Barbera e dal medesimo trasferita poi nel Pci-Pds alla ricerca di contromisure da opporre al presunto autoritarismo del presidenzialismo socialista e teorizzata come «democrazia immediata» (invero inesistente ché la democrazia è diretta o rappresentativa) attraverso un'estrapolazione dal prof. Duverger. Eppure in Francia la scienza del diritto pubblico non possiede il rigore dogmatico tedesco, né la scienza politica la accumulazione empirica anglossassone, e, in particolare, i costituzionalisti francesi, reputando il Paese al centro del mondo, hanno dato o sogliono dare una definizione del loro regime (e una classificazione universale dei regimi) che risulta diversa non solo per ogni loro riforma costituzionale, ma anche per ogni riforma elettorale e, addirittura, per ogni mutato esito elettorale. Altrettanto inesistente, in diritto costituzionale e in scienza politica, dunque in storia delle istituzioni (che ne è l'uso diacronico), appare la categoria della «democrazia dell'alternanza», sponsorizzata dai giuristi comunisti nostrani al fine di definire in negativo la anomalia suddetta imputandola alla presunta conventio ad excludendum per non doverla attribuire a una carenza di legittimazione, che, secondo loro, si stava protraendo troppo a lungo per essere solo la caratteristica comune di ogni organizzazione politica sorta in opposizione all'assetto in atto (cattolici versus liberalismo, socialisti versus capitalismo, repubblicani ver-
~-V-,BIANCO l.XILROS.SO MARCiliiW sus monarchia). Non esiste, in effetti, una «democrazia dell'alternanza» (o, peggio, delle alternative), ma esiste, dove esiste, un sistema politico bipolare, conservato tale anche da una forma di governo, il regime presidenziale, con la sua variante semi-presidenziale, o della combinazione di un'altra forma di governo (parlamentare, con la sua variante semi-parlamentare) con un sistema elettorale non proporzionale (uninominale secco o altro). Nel sistema politico bipolare (non lo è se è consistente solo uno dei due poli), si dà o si può dare l'alternanza al governo attraverso l'elezione che politicamente conta di più (nei regimi presidenziali quella del presidente, nei regimi parlamentari quella del parlamento, camera «bassa»)quando sono legittimati entrambi i «poli» e, in ispecie, anche il secondo (non è legittimato finché la maggior parte dell'elettorato ritiene, a torto o a ragione, che il suo avvento capovolgerebbe l'assetto economico-sociale o politico-istituzionale vigente). 4. L'ipotesi del passaggio da un sistema frammentato (comunque non bipolare) a un sistema bipolare per effetto diretto di una riforma esclusivamente elettorale, che sia introdotta, è infondata. Nessuna delle esercitazioni politologiche o costituzionalistiche, anche recenti, è stata in grado di dimostrare che un sistema elettorale, fosse pure a collegio uninominale secco, abbia mai portato alla bipolarizzazione una grande democrazia (o meno grande) prima frammentata o la porterebbe di per sé o la porterebbe oggi in Italia, dove l'unica polarizzazione ipotizzabile - ma non bipolarizzazione sul piano nazionale - è quella di una Dc, il partito maggiore, che, con o senza stabili alleati, rinnovato o restaurato, sconfiggesse elettoralmente la Lega al Nord, il Pds e la sinistra al Centro e nel Sud, ritornando alla maggioranza assoluta del 1948. Viceversa un regime presidenziale, in cui tecnicamente il secondo turno della elezione presi - denziale sia riservato strettamente al ballottaggio fra i primi due candidati, determina, molto probabilmente, il bipolarismo (v. Francia), tanto più se accompagnato (non preceduto) da un sistema elettorale con esso coerente. L'opposizionemanifestata dai due maggiori partiti, falsamente motivata con argomenti teorici (la democrazia plebiscitaria e l'equazione fra presidenzialismo e autoritarismo), è dipesa essenzial7 mente dal timore di una perdita di potere: per il primo (Dc) l'estromissione totale dal governo o comunque dalla sua titolarità in caso di sconfitta e per il secondo (Pci-Pds) la rinuncia a candidato proprio, a favore di un altro della sinistra, per non risultare sicuramente perdente. Per contro, a parte gli altri incovenienti, di cui subito si dirà, la eventuale elezione popolare diretta del Primo Ministro, comunque organizzata, non potrebbe avere la medesima efficacia bipolarizzante perché si tratterebbe di carica e quindi di elezione politica potenzialmente meno pesante, fra l'altro anche sotto il profilo dell'immagine, di quella di un Presidente della Repubblica, esclusivo titolare del potere esecutivo (per inciso, pure la elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica, non titolare del potere esecutivo, sarebbe assai meno bipolarizzante). Inoltre, chi propone l'inedito sistema di elezione popolare diretta del Primo Ministro (dire capo del governo è improprio perché nel regime presidenziale puro il capo dello Stato) e lo fa al fine di tenere collegato il governo al parlamento, evitando una eccessiva concentrazione di poteri nell'organo monocratico (appunto il capo dello Stato titolare del potere esecutivo), finisce coll'aprire altri problemi insolubili: in sostanza, non ha senso una elezione popolare diretta del governo, se questo non ha poteri propri da esercitare, distinti da quelli del parlamento, della cui maggioranza deve non avere un indispensabile bisogno. Altrimenti si entra in una spirale di conflitto fra i due organi, di instabilità-inefficienza dell'esecutivo (che è invero il problema da risolvere), di definizione dei poteri di revoca del governo (eletto direttamente) da parte del parlamento e di scioglimento del parlamento (da parte di chi? Del capo dello Stato, che, così, conserverebbe un potere discrezionale rilevantissimo?). Da questo punto di vista, anche le critiche mosse al regime semi-presidenziale francese, che suddivide il potere esecutivo fra il capo dello Stato, che sceglie il governo, e quest'ultimo, che non può sussistere con la «sfiducia» del parlamento, sono ineccepibili (e si traducono, peraltro, a ben vedere, in critiche all'eventuale regime del Primo Ministro, ove appunto vi sia qualche dipendenza del governo, nell'esercizio della sue funzioni, dalla maggioranza parlamentare). Nel regime presidenziale, fattore di bipolarismo e quindi virtualmente di alternanza, nonché di
{)JL BIANCO lX.ILROSSO MiiRCilill stabilità-efficienza dell'esecutivo (non dipendente dal parlamento) e - aspetto più rilevante, eppure più trascurato - di autentica forza del parlamento medesimo (titolare della potestà legislativa, sollevato dal votare leggi su cui il governo abbia posto la questione di fiducia o dal delegargli per tre anni la determinazione delle aliquote fiscali), contano ugualmente il modo di elezione (Francia) e la separazione dei poteri (Usa). 5. Tale è stata, almeno nella sua lettera più coerente, ancorché non univoca, la linea di politica istituzionale del Psi dal 1979 (articolo di B. Craxi sulla «grande riforma») al 1989, quando, al congresso di Milano, G. Amato indicò espressamente il modello presidenziale americano. Nella prospettiva bipolarizzante era metodologicamente corretto, anzi necessario, che si pretendesse la contestualità del regime presidenziale a tutti i livelli: nazionale, regionale, locale. Alla condizione, beninteso, che essa fosse evocata per affermare il principio e non per rinunciarvi ed escluderlo (col rischio immediato e col risultato successivo di farselo imporre in malo modo). Nel caso specifico della elezione diretta del sindaco la reieFilippo Turati e compagni sul banco degli accusati (1891). 8 zione sarebbe stata ben motivata se avesse fatto seguito al rifiuto dell'opposizione comunista di aderire a una proposta che non fosse partitocratica (di separazione), come invece era la sua e come è, del resto, purtroppo, quella attuale della commissione neppure definibile a rigore in termini di elezione diretta del sindaco come tale (in pratica, secondo Dc, Pds e, purtroppo, Psi, l'elettore non può dare il voto a un sindaco, sia pure di partito, senza dare al partito relativo un regalo in seggi di entità non molto inferiore a quello della legge-truffa del 1953: 60% anziché 65). In questa chiave la riforma elettorale, intesa come riforma a sé stante o come pura anticipazione di una riforma istituzionale imprecisata ovvero precisata in senso ancora parlamentare o neo-parlamentare, è invece questione secondaria, irrilevante, fuorviante. L'alternativafra proporzionale e uninominale ovvero fra proporzionale con correttivi maggioritari o maggioritario con correttivi proporzionali può essere influente in ordine al peso dei singoli frammenti del sistema politico italiano o all'interno di ciascun frammento (a cominciare.dal maggiore), ma è ininfluente rispetto alla struttura e al funzio-
{)JL BIANCO '-.Xtt nosso MARCiliil namento del sistema politico stesso, che non si bipolarizza certo a seconda della scelta dell'uno o dell'altro corno del (presunto) dilemma: scelta che diventerebbe importante ove collegata a una forma di governo bipolarizzante. Presumibilmente nel partito maggiore il contrasto, che, se fosse su opzioni elettorali o istituzionali, sarebbe risolto facilmente con l'autonomia dei parlamentari sulla questione, verte sulla strategia di assunzione della leadership di un vasto fronte, che, comunque, non si dispone lungo l'asse dell'egualitarismo, ma vuole assorbire la sinistra o, meglio, le sinistre, le quali non sembrano avvedersene, ancora prevalentemente preoccupate, come sono, dei rapporti di forza fra loro. Poiché il sistema elettorale è ora (abbastanza) proporzionale, qualsiasi riforma, che non sia volta a renderlo più proporzionale, ha come conseguenza, anzitutto, un «premio» in seggi al partito maggiore (rispetto al quale il secondo partito pesa, ormai, poco più della metà): non solo col «premio» vero e proprio (non a caso contenuto nella sua proposta e, in misura molto minore, già oggi lucrato), ma anche col collegio uninominale sia a unico sia a doppio turno, nonché, ovviamente, con ogni sistema misto. Il che può pure condurre (non necessariamente) alla maggioranza assoluta di quel partito a connessa stabilità-efficienza del suo governo, ma se e fino a quando tale maggioranza non si frammenti dopo l'elezione: per questo si tenta di ovviare con la elezione parlamentare del Primo Ministro, non revocabile se non con la cosiddetta sfiducia costruttiva (peraltro già rivelatasi clamorosamente inefficace, come da facile previsione, nei governi locali, dove è stata introdotta dalla fallimentare legge 142/1990, l'infelice combinato disposto del centralismo ministeriale e del centralismo partitocratico). 6. Riconosciuto nel bipolarismo il presupposto necessario dell'alternanza al potere, del ricambio e dalla possibilità per l'elettore di scelta fra candidati-partiti-programmi-governi e di premiopunizione dell'etica e dell'efficienza dei comportamenti politici, nonché il fattore sostanziale di stabilità-efficienza con qualunque forma di governo, la modalità di opzione (duale) analoga alla democrazia diretta (referendum), il limite alla partitocrazia, infine la conservazione delle energie politiche emergenti nell'ambito della legalità in quanto collegabili a una competizione effettiva, che en9 trambe le parti possono vincere o perdere, le linee di una riforma conseguente si possono individuare come segue: a) un regime presidenziale come quello francese nella modalità di elezione del presidente (ballottaggio a due) e come quello americano nella distinzione netta (e quindi equilibrio, mai perfetto, ma mai irreversibilmente troppo sbilanciato) fra l'esecutivo stesso e il legislativo (parlamento), oltre che nella durata del mandato; b) una camera in cui, contestualmente alla elezione presidenziale, almeno 100 deputati siano eletti con sistema proporzionale purissimo a collegio unico nazionale (in modo che all'l o/o dei voti corrisponda un seggio) e i restanti 300-400 siano eletti, per coerenza col regime presidenziale suddetto, con collegio uninominale a doppio turno (ballottaggio, senza desistenze). Naturalmente ciò implica una revisione dell'intero impianto costituzionale su tutti i fronti degli strumenti di garanzia, a cominciare dalle prerogative del parlamento (che in un regime presidenziale autentico è molto più forte che in un regime parlamentare, specie se a sistema politico non bipolarizzato), dalla assoluta indipendenza dai partiti della Corte costituzionale, del Consiglio superiore della magistratura, della Corte dei conti, ecc. Né meno essenziale è l'azzeramento del servizio pubblico radiotelevisivo con sostituzione integrale dei suoi giornalisti (parte integrante della classe politica, ma senza responsabilità, se non di fronte ai partiti di appartenenza e di origine), con drastica riduzione delle sue dimensioni e connessa pari riduzione del monopolio privato a favore, in entrambi i casi, della emittenza regionale e locale (la legge attuale è incostituzionale ai sensi dell'art. 5 Cost.). Ma soprattutto, preliminarmente, è da modificare la forma di Stato su base, appunto, autonomistica. Anche tale rifondazione postula, a ben vedere, un regime presidenziale, così come, per converso, a fronte di questo non può mancare una robustissima rete di autonomie. 7. Nella revisione costituzionale dell'ordinamento regionale non è importante che sia introdotto l'aggettivo «federale» nella definizione di Repubblica (art. 1) o soppresso l'inciso «una e indivisibile» nell'articolo 5, ma che si batta una strada opposta a quella, di pura regionalizzazione dell'amministrazione, imboccata finora nel comitato del-
i)JL BIANCO il.JLROSSO MililiMld la bicamerale (sia pure con il consenso del prof. Miglio). Gli strumenti decisivi, da recepire nella Costituzione, sono: a) disposta la elencazione tassativa delle materie di competenza statale ed assegnate le restanti alle Regioni, esclusione per le seconde di leggiquadro o leggi organiche che facciano rientrare dalla finestra l'ingerenza statale estromessa dalla porta; soppressione dei ministeri, tranne che nelle materie statali; b) diminuzione della distinzione fra Regioni ordinarie e speciali con attribuzione a tutte della «specialità» attraverso specifiche leggi costituzionali; c) trasferimento alle Regioni di tutta l'amministrazione statale, centrale e periferica, tranne giustizia, forze armate, diplomazia, ecc.; d) piena autonomia finanziaria di entrata e di spesa per Regioni ed enti locali in sostituzione della corrispondente imposizione fiscale statale: e) regime presidenziale per le Regioni (a meno di referendum popolare favorevole al regime parlamentare) con elezione diretta del Presidente (ballottaggio a due), che sceglie il governo regionale, e con separazione netta di competenze fra il medesimo e il parlamento regionale; f) rafforzamento dei principi costituzionali sull'autonomia di Comuni e Provincie contro l'ulteriore centralismo regionale della legge 142/90 e della interpretazione regionalistica della stessa; g) attribuzione alla Corte dei conti (rinnovata) del controllo di legittimità su atti amministrativi di Regioni, Province, Comuni; h) definizione ex novo, attraverso riaggregazioni provinciali, di Regioni di almeno quattro milioni di abitanti (tranne Sardegna e Sicilia), con ordinamento della specialità regionale e provinciale attuale all'interno di tali Regioni, sostitutivedello Stato. In tale disegno e solo in tale disegno, in tutti i punti elencati, si pone l'esigenza di un Senato delle Regioni, che, con Regioni come le odierne e come quelle del comitato della commissione bicamerale, non avrebbe significato. In particolare, per il Senato delle Regioni, si propone una composizione che, a parte i senatori a vita, sia fatta: dei presidenti delle Regioni; di tanti senatori quanti sono i milioni di abitanti (della Regione), eletti dal parlamento regionale e tenuti, in Senato, a votare compatti per delegazione di Regione: di altrettanti senatori eletti in ogni Regione a collegio uninominale. Beninteso tale Senato, chiamato ad intervenire, volendo, su ogni legge già approvata dalla camera, non voterebbe la «fiducia» al governo nazionale (ma in questa sede si presuppone un regime presidenziale). 8. Infine le modalità della revisione costituzionale e, in particolare, la legittimità di introdurla con procedimento diverso dall'art. 138Cost., cioè attraverso una modificazione dello stesso art. 138 o l'introduzione di una norma (costituzionale) della medesima efficacia formale. La Costituzione esclude la revisione della forma repubblicana (art. 139)e la forma repubblicana, di cui la Costituzione esclude la revisione, è la forma di Stato insomma la Repubblica democratica così come connotata nel suo essere democratica dai principi fondamentali (fra cui anzitutto l'art. 5), e non la sua forma di governo, l'essere connotata come regime parlamentare (che non è principio fondamentale; del resto, non si contesta la legittimità del passaggio ad altre forme di governo, come il regime neo-parlamentare o semipar lamentare). Si può dubitare della leggittimità di una revisione costituzionale che sia, per così dire, autorizzata (sia pure con legge costituzionale adottata col procedimento del 138) una tantum con procedimento diverso dal 138 stesso. Non si può dubitare della legittimità di una revisione costituzionale (non una tantum) dello stesso 138 in sé. In particolare, è legittimo che questo sia corretto nel senso del referendum non puramente confermativo (com'è oggi), ma alternativo, nella contrapposizione fra il testo approvato dalla maggioranza del parlamento e quello, altrettanto redatto in articoli, votato dalla minoranza maggiore ovvero sottoscritto dal maggior numero di cittadini, comunque oltre una certa soglia (si parva licet, così è nello statuto del Comune di Milano). È evidente la superiore qualità democratica di una simile formulazione (del 138 Cost.), così come è evidente che la accoppiata del procedimento di revisione una tantum e, con la stessa, del referendum solo confermativo (oltre tutto, non eventuale, come nel 138 attuale, bensì obbligatorio), presenta un carattere plebiscitario, nella accezione autoritaria del termine, che accomuna Vittorio Emanuele II, Napoleone III e Charles De Gaulle, per non dire altro.
i)JL BIANCO lXtLROSSO l\il•li•III Dunque, è chi per un quindicennio ha bollato come plebiscitario 1.+nregime, il presidenziale, che, se, a regola d'arte, non è tale, a pretendere di esorcizzarlo con un atto che è, esso sì, intrinsecamente plebiscitario. Tanto più plebiscitaria e antidemocratica appare la sfida, contenuta nella legge sulla bicamerale, quanto più si considera che, molto probabilmente, l'elettorato nazionale, così come quello regionale e locale, ove posto di fronte all'alternativa, opterebbe per la forma di governo (a elezione diretta del capo dell'esecutivo), su cui gli viene negato di pronunciarsi. Nel che si intravvede persino il bis di un errore politico, che questa volta potrebbe rivelarsi fatale, se il referendum costituzionale solo confermativo fosse presentato all'opinione pubblica per quanto esclude e, soprattutto, per la sua provenienza, facilmente (e non falsamente) battezzabile come partitocratica. «Chi di referendum ferisce, di referendum perisce», bisognerebbe rispondere, allora, ai grandi sottoscrittori dei referendum «di stimolo» come li ha poi chiamati la dottrina compiacente: chiedere col referendum una cosa (l'uninominale) per ottenerne in parlamento un'altra (il premio di maggioranza) oppure, contemporaneamente, l'opposto, come il premio dei 4/5 dei seggi in Comùne per l'elezione uninominale del sindaco. Al referendum abrogativo dovrebbe prestare attenzione pure la presidenza vecchia e ancora la commissione affari costituzionali della camera, la quale, nella estrema, disperata difesa della sua fallimentare legge 142/1990, si accinge a imporre al candidato sindaco di dichiarare preventivamente il collegamento al partito, cioè di tirare la volata. Così perderanno entrambi: la squadra e il capitano. Spezzare il connubio politica-amministrazione di Tiziano Treu Il prof. Treu torna sul tema dell'ultimo nostro Dossier: per uscire dalla crisi parole quasi tutti riconoscono che la nostra situazione politica è grave - almeno quan- A to quella economica - e che non bastano aggiustamenti marginali per rimetterci sulla strada giusta. Anche molte analisi sono sufficientemente lucide e convergenti: ma le implicazioni operative di queste analisi sono incerte, e le proposte di mutamento alquanto divergenti quando non ambigue. Il governo Amato con i suoi interventi drastici ma ancora insufficienti costituisce, per ora, un fragile baluardo al vero e proprio collasso dell'eco11 nomia italiana. Ma non è certo quanto possa durare; mentre è certo che non può reggere se la ricerca di nuove forme istituzionali di governo e di una riforma dei partiti procede con i tempi lunghi tipici della politica tradizionale. I tempi dell'economia non aspettano, e la burrasca europea è troppo grave anche per sistemi piu robusti di quello italiano perché basti «far passare la nottata» in attesa di riprendere il solito passo (politico ed economico). Il caso di Milano mostra più chiaramente di altri i guasti che la politica può contribuire a causa-
i.>-lL BIANCO l.XtLllOSSO 1\11 ,., 1111 re anche nell'economia, oltre che nella morale. Una struttura economica e istituzionale robusta come quella di Milano è stata messa in ginocchio e rischia la paralisi se non si cambia profondamente il modo di funzionare della politica e dei partiti. La giunta Borghini ha l'obiettivo di tamponare l'emergenza e di mostrare che qualcosa si può fare di buono nonostante tutto: ma non può (e non vuole reggere) se non si cambiano presto le regole del gioco (e quindi con tutta probabilità anche i giocatori). Non c'è dubbio che le esigenze di mutamento politico istituzionale sono profonde e riflettono una crisi non solo italiana. Lo confermano le difficoltà del processo di integrazione europea che Maastricht voleva accelerare e che invece hanno provocato profonde reazioni di rigetto, non solo economiche, ma anche politico istituzionali. Senonché la crisi italiana ha gravità particolare e specificità sue proprie, su cui solo noi possiamo intervenire. Il dibattito avviato su questa rivista ne ha fatto una diagnosi molto precisa. Concordo sul fatto che l'elemento storico più vistoso è la mancanza di ricambio della classe politica emblematizzato dalla longevità della Dc sia istituzionale sia del suo «personale direttivo». Sottolineare questo elemento è tuttora importante perché la Dc non ha intenzione di farsi «ricambiare». Ma non è sufficiente: dopo tutto esiste almeno un caso importante, il Giappone, che non ha avuto grande ricambio di maggioranze politiche. Eppure né l'economia nè la politica giapponese sono ridotte come le nostre. Il punto è che il non ricambio politico italiano ha contribuito a causare una vera e propria mutazione istituzionale perversa del nostro sistema, che è fra le radici più profonde e specifiche della nostra crisi. I partiti, invece che operare come strumenti di organizzazione della rappresentanza politica, sono diventati amministratori della cosa pubblica. Ha cominciato la Dc, come sottolinea Baget Bozzo, ricordando il contributo decisivo al riguardo di Moro. Poi gli altri partiti si sono associati, anzi «consociati» in modi, luoghi e tempi diversi a seconda delle posizioni rispettive. Il connubio partitiamministrazione ha alterato l'intero assetto istituzionale. Ha contribuito all'ipertrofia dei partiti e dei loro apparati, e insieme all'ipertrofia del pubblico. Nessun altro sistema europeo ha partiti così «pesanti» e un potere politico così «invasivo»del12 la società e così occupato dai partiti. Questo connubio è stato tanto più perverso in quanto si è trovato a operare in una pubblica amministrazione debole e insicura come quella italiana e non è stato contrastato dalla presenza di un forte senso dello stato (quale si riscontra in altri paesi). La occupazione stabile e concordata delle istituzioni pubbliche (comprese quelle operanti nell'economia) da parte dei partiti è alla base del diffondersi della corruzione pubblica; ma prima ancora ha provocato la deresponsabilizzazione e il degrado progressivo della pubblica amministrazione. Per tale motivoquel che in altri paesi è stato utile e decisivo in momenti di crisi, le grandi coalizioni politiche e sociali, da noi si è tramutato in un consociativismo spartitorio. E i danni economici diretti della corruzione pubblica si sono sommati ai danni economici oramai insopportabili di uno stato inefficiente e di un welfare mostruoso nei suoi costi e nelle sue storture. Istituzioni pubbliche ipertrofiche, inefficienti e consociative non correggono, ma accrescono le fragilità e i possibili dualismi della società. Il peso di queste storture politico-istituzionali ha inquinato profondamente larghi strati della società (le piccole tangenti e disonestà quotidiane). Esso grava come un macigno su un'economia come quella italiana, che pur è potenzialmente vitale, ma anch'essa fragile e senza strategie definite. Uscire dalla tempesta economica europea è difficile per tutti, compresi i forti sistemi francese e tedesco. Se l'Italia non si libera presto da questi pesi è escluso che possa uscirne. Per questo riformare partiti e istituzioni e rompere l'attuale perverso connubio è anche una esigenza di sopravvivenza economica. Non a caso la lega di Bossi fa appelli espliciti in questo senso. Mostra alle zone ricche e avanzate dell'Italia (Mantova insegna) il rischio del decadimento economico: un rischio avvertito come reale e che tale può essere. E la Lega non fa fatica a individuare i responsabili, nei partiti tradizionali e nello stato centralistico; anche perché non sono solo i rigurgiti localistico-antimeridionalistico, pur presenti nelle leghe, a giustificare tale accusa. La sfida di Bossi è forte perché indica pericoli e responsabili reali, e perché ha radici profonde. La tradizione italiana dei Comuni è più forte in certe zone di quella dello stato. Il progetto di espugnare le città principali padane per separare il
,l>.t.t BIANCO lXILROSSO EANMilld Nord d'Italia dal resto è allucinante; ma contiene duri elementi di realismo, come insegna ancora una volta Mantova. La sfida della Lega utilizza a fondo la crisi della politica tradizionale. Per questo non bastano aggiustamenti parziali, ritocchi agli statuti e ai comportamenti dei partiti attuali, alchimie negli schieramenti esistenti. I segni sono così evidenti nell'economia (la perdita di efficienza) e nella politica (la perdita di voti) che dovrebbero convincere anche i più ciechi. Eppure non sembra che gli shock siano ancora sufficienti. Per ora si discute ancora più di schieramenti che di contenuti; le proposte di riforma istituzionale sono in alto mare e quanto meno equivoche; quelle ufficialmente in cantiere sono le proposte di autoriforma dei partiti ma non si è ancora cominciato a discuterle veramente. Queste ultime sono altrettanto urgenti delle prime se è vero quanto detto sopra circa la perversità del nesso attuale fra partiti e istituzioni. Condivido molte indicazioni emerse dal dibattito de Il Bianco e Il Rosso: la necessità di snellire drasticamente le strutture del partito, di romperne le rigide basi territoriali (che favoriscono l'occupazione delle istituzioni e il controllo degli apparati), di diminuire i costi delle elezioni e in genere dell'intermediazione politica. Vorrei sottolineare in modo specifico l'urgenza di dare corpo alla cosidetta separazione fra politica e amministrazione. Se ne parla da tempo; l'obiettivo è già scritto nelle leggi più recenti - a cominciare dalla 142del 1990- ma le resistenze sono fortissime,le implicazioni oscure, e i progressi quasi insignificanti. Eppure il buon funzionamento e l'imparzialità della amministrazione sono obiettivi prioritari per superare la crisi italiana: quella economica e quella morale. 13 I due aspetti si legano perché abolire le indebite confusioni fra politica ed amministrazione implica anche ridare efficienza ed autonomia all'azione amministrativa. Questi obiettivi sono dunque componenti essenziali della riforma della politica e della riforma dello Stato. Entrambi costituiscono un banco di prova della volontà dei partiti di rigenerarsi e della capacità di riforma del governo Amato e dei vari governi locali. A Milano assumono carattere di particolare emergenza, perché sono drammatizzati dalle gravi vicende di corruzione pubblica rilevate dalla magistratura. La confusione fra amministrazione e politica costituisce un terreno di coltura e una agevolazione oggettiva per l'immoralità politica ed economica. Superare questa confusione è difficile operativamente, perché essa ha creato intrecci di interessi solidissimi che attraversano orizzontalmente il ceto politico e quello imprenditoriale. È difficile anche politicamente e concettualmente, perché la linea di confine tra attività amministrative e decisioni politiche non è sempre netta. Esistono molte aree nel governo centrale e locale della cosa pubblica che sono oggetto di valutazioni e di discrezionalità mista insieme tecnica e politica. Sarebbe controproducente reagire all'attuale confusione proponendo una semplicistica «separazione» fra le due sfere; ovvero sottraendo alla politica decisioni che le spettano per affidarle in blocco ad amministratori tecnici. Le distorsioni dell'attuale politica non si sanano con l'artificiale «tecnicizzazione delle decisioni». Per questo occorre avviare una ricerca sistematica che riduca l'attuale «invasione» della politica nella gestione amministrativa senza cadere nella deresponsabilizzazione falsamente neutrale della amministrazione.
,P!L BIANCO lXILHOSSO MiiiiiililJI Lasolidarietnàell'economia e nelloStato di Pippo Morelli a solidarietà oltre ad essere uno dei fondamenL tali valori sociali storici (da quella cristiana diffusa in tante associazioni e ordini religiosi o laici, a quella «di classe» praticata dalle società di muto soccorso, ai movimenti sindacali) è da tempo tornata nei discorsi e nelle politiche dei sindacati, negli obiettivi e nelle diffuse esperienze dei tanti movimenti di volontariato. Torna nelle intenzioni delle forze politiche di sinistra che la propongono come alternativa, sul piano economico, agli attuali meccanismi di accumulazione ed al prevalere della cultura liberista per la costruzione di un modello di sviluppo, di una democrazia e di una convivenza sociale diverse da quelle attuali. Affermazioni così importanti ed impegnative hanno bisogno di trovare conseguenze a livello di proposte politiche e di progetti concreti, soprattutto in questa fase quando tutti parlano di solidarietà. Alcuni partiti (come la Dc) l'hanno proposta come loro obiettivo primario, ma troppo spesso in modo retorico e generico, tant'è vero che sono emerse palesi contraddizioni tra le affermazioni sbandierate, le scarse realizzazioni ed i comportamenti pratici. Era facile, negli anni '60 e '70, affermare e portare la solidarietà tra tutti i lavoratori italiani (operai e braccianti, manovali ed impiegati, lavoratori del Nord e del Sud, addirittura tra operai e studenti) quando tutti lottavano per obiettivi uguali o simili, come la riduzione d'orario, gli aumenti uguali per tutti, i diritti nei luoghi di lavoro, ecc. L'epoca delle rivendicazioni generalizzate, delle lotte comuni e di conquiste per tutti è finita da un pezzo. Oggi siamo in epoca diversa, con crisi economiche ricorrenti, con un deficit pubblico alle stelle, con una società più diversificata e frammentata, con logiche corporative dilaganti. 14 La ormai annosa crisi del movimento sindacale ed il più recente crollo dei regimi collettivistici del socialismo reale hanno poi trascinato, o quanto meno impallidito, quella forte cultura e prassi della «solidarietà di classe». È proprio per queste ragioni che occorre precisare meglio cosa si intende oggi per Solidarietà, soprattutto per chi la vuole portare a valore sociale e politico. C'è da compiere un grande lavoro culturale e politico per contrastare l'idea - che appare oggi dominante - dell'individualismo e arrivismo, sul piano sociale, e del liberismo e consumismo selvaggio, sul piano economico. Occorre ora pensare ad una solidarietà progettuale, da quando non esiste più una medesima condizione sociale di emarginazione dalla quale intere classi volevano uscire. C'è da riportare a valore generale quello che oggi viene praticato dal volontariato, ma rischia di rimanere isolato. C'è da superare una differenziazione di campo (la solidarietà ai movimenti cattolici, le riforme sociali ai partiti), per affermare e praticare la solidarietà come valore non solo cristiano, ma generale, di tutti. Quindi idea forte che coinvolge tutti e che chiede comportamenti comuni: per i vari gruppi sociali come per tutta la società, solidarietà vuol dire: ricercare obiettivi comuni e lavorare insieme, lottare insieme per realizzarli. Nella fase attuale ritengo che sia necessario puntualizzare, in termini concreti, come realizzare la solidarietà: 1) nella cooperazione internazionale 2) nell'economia e nel lavoro 3) nello Stato sociale 1) La verifica delle esperienze italiane di cooperazione internazionale va ovviamente vista in un quadro di pace e di nuove relazioni internaziona-
~.lL BIANCO l.XILROSSO MiikKilid li, sapendo che gli squilibri economici e particolarmente le situazioni di miseria e di emarginazione sono causa di tensioni sociali, ma che anche motivazioni etniche e razziali provocano guerre locali ed ampi conflitti, come sta avvenendo nella ex Jugoslavia e nell'Est. Ma ora che la cooperazione italiana è in profonda discussione non solo per gli elevati sprechi di gestione e per i diversi episodi di corruzione, ma soprattutto per la scarsa efficacia degli interventi, per le errate scelte politiche dei Ministri degli Esteri e dei passati Governi ed ultimamente anche per l'esigenza di ridurre drasticamente la spesa pubblica, tutta la politica di cooperazione va rivista e ridefinita. Il nostro Paese, nel sollecitare nuove politiche internazionali a livello Cee ed Onu, dovrà anche meglio definire le direzioni d'intervento per aree e per paese e conseguentemente far approvare dal Parlamento l'orientamento dell'Assemblea dell'Onu di aumentare gradatamente, fino all' 1 %, la percentuale del Pil da destinare agli aiuti ai Pvs. Inoltre la gestione di tali aiuti va mutata, sia specializzando il tipo e la qualità degli interventi delle Ong, sia indirizzando quelli delle imprese italiane a iniziative di cooperazione e non di assistenza o peggio di concorrenza e di speculazione, ma per far crescere le economie e le imprese locali. Negli ultimi anni infatti le Ong hanno dimostrato che la collaborazione diretta tra organizzazioni italiane e quelle locali, tra nostri volontari ed operatori dei Pvs promuove e sostiene la crescita economica e sociale di quei paesi. La ricchezza dell'esperienza del volontariato internazionale, che ha mostrato come la solidarietà non è solo aiuto da parte dei paesi ricchi, ma «interscambio» tra economie e società diverse, collaborazione tra culture, razze e religioni differenti, può essere ricreata ed estesa anche in Italia. Sta aumentando ogni giorno, e sempre più aumenterà, l'arrivo di immigrati, non solo perché fuggono dalla miseria dei paesi africani, o dall'oppressione e dai conflitti dell'Albania o della ex Jugoslavia, ma anche perché il nostro assetto produttivo ha spesso bisogno di manodopera, anche perché molti lavori pesanti o dequalificati vengono da tempo rifiutati dai lavoratori italiani. Da una crescente immigrazione nascono, anche da noi, se non il razzismo, certamente il fastidio, l'intolleranza, l'isolamento e l'emarginazione. Occorre allora non solo l'atteggiamento di ac15 coglienza e l'aiuto per nuovi bisognosi (questa è doverosa assistenza), ma soprattutto la comprensione, il dialogo, la collaborazione tra persone e gruppi, per realizzare vera solidarietà. Siamo in una società che è già multietnica e multirazziale e dobbiamo porci non tanto il compito di «sopportare» altri, quanto di conoscere e capire la loro cultura e costumi, di accettare la loro diversità, di costruire relazioni e rapporti non tra eguali (perché non si può chiedere agli immigrati di integrarsi alla nostra cultura ed alle nostre abitudini), bensì tra «simili», che individuano obiettivi comuni e modi di realizzarli insieme. Tra questi il miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita, ed insieme progetti di cooperazione tra popoli diversi, tra varie comunità, per superare le condizioni di sottosviluppo dei paesi di provenienza, anche per facilitare il ritorno in patria, a condizioni migliori delle attuali. Questi obiettivi vanno affrontati sia dal Governo che dovrà rapportarsi diversamente con i paesi in via di sviluppo, sia dagli Enti Locali e dalle varie associazioni, per realizzare proposte di gemellaggio con specifici paesi dai quali provengono gli immigrati. 2) raggravarsi della situazione economica e soprattutto del deficit pubblico, determinato dalla irresponsabilità, dall'incompetenza e dalle esplicite contraddizioni dei passati Governi, chiede un impegno «solidale» delle forze politiche progressiste, per poter individuare e prendere alcune decisioni tempestive e necessarie per il risanamento economico-finanziario del paese e per una tutela reale dell'occupazione e del lavoro. La manovra del Governo Amato - pur coi suoi limiti - mostra un avvio di tale risanamento, che però chiede molto più tempo ed interventi ancor più drastici. Bisogna allora ripensare ad un patto «di solidarietà» generale tra governo - forze economiche - forze sociali, anche per contrastare quella crescente frammentazione corporativa che acuisce la disgregazione sociale. Si richiede un ripensamento delle politiche economiche che affrontino più decisamente i nodi del deficit pubblico, della crisi dello stato sociale, dello squilibrio del Mezzogiorno, delle crescenti difficoltà dell'industria, dell'arretratezza ed esosità della pubblica amministrazione ed insieme dell'aumento delle diseguaglianze di reddito tra categorie ed aree diverse.
,P-ll,BIANCO UJLROSSO CUOMillll Mentre bisogna abolire i vari interventi straordinari, per eliminare uno dei principali strumenti di collusione tra politica e affarismo, bisogna anche superare le pratiche assistenzialistiche e clientelari, ed impostare un modo diverso di rapporto e di cooperazione tra economie e società delle aree progredite con quelle meno sviluppate. È altrettanto essenziale «selezionare» severamente la spesa pubblica, riassestare le finanze, combattere l'evasione e l'elusione fiscale, stabilire regole eque di un'economia di mercato che va «governata», per evitare squilibri ed iniquità. Uno degli impegni prioritari di Riformismoe Solidarietà può essere quello di ricercare ed elaborare - insieme ad esperti, economisti ed altri gruppi e movimenti - alcune idee e progetti per il risanamento economico, per la redistribuzione del reddito, per l'equità fiscale, per lo stato sociale, per il lavoro soprattutto. Oltre all'enorme squilibrio Nord-Sud, le gravi situazioni dei paesi dell'Est vanno affrontate non solo con rapporti diplomatici e con la giusta preoccupazione di stabilire nuovi equilibri di forze, ma anche in termini di nuovi rapporti economici e sociali tra popoli diversi, nel quadro di un'Europa molto più ampia del mercato unico dei 12. Occorre inoltre affrontare le situazioni di un mercato del lavoro europeo sempre più toccato da milioni di migranti, che stanno già determinando tensioni sociali ed etniche, in una fase di calo dell'occupazione in molte zçme europee. Realizzare la solidarietà nel campo del lavoro vuol dire pensare e realizzare sia una equa distribuzione dei redditi, sia anche una equa distribuzione della risorsa lavoro. Il vecchio obiettivo «lavorare meno per lavorare tutti» va ripreso con strumenti più attuali ed efficaci (peraltro previsti dalla legge e dai contratti di lavoro) ed attuati più largamente per dare opportunità di lavoro a tutti. A livello internazionale si può pensare ad un Fondo di risparmio ed investimento, alimentato da contributi degli Stati, dei lavoratori locali e degli immigrati, per favorire nuova occupazione nei Paesi dell'Est, come del Mediterraneo, in proporzione al tasso dei senza lavoro nei vari paesi. 3) Lo stato sociale va ripensato in termini ampi perché non basta rivendicare più assistenza per gli handicappati, per gli anziani, per le fasce più deboli, anche perché l'aumento dei costi dei servizi 16 sociali e le loro estese insufficienze, non permette più un allargamento dell'intervento pubblico. Nè basta pensare di eliminare i costi della lottizzazione politica, del malcostume e dell'inefficienza, ma va anche ripensato il criterio, fino ad ora seguito, di uno Stato che deve garantire tutte le possibili assistenze a tutti i cittadini. Perché costerebbe troppo ed anche perché il dare gli stessi interventi e le stesse opportunità a persone e gruppi in condizioni diverse, significa mantenere ed aggravare le diseguaglianze e le ingiustizie. Non a caso chi finora ha osteggiato i progetti di riforma previdenziale, in senso più giusto ed egualitario, sono proprio quelle categorie più privilegiate, che vogliono mantenere pensioni più alte, pagate dallo Stato e spesso coperte dal padrinaggio politico. E chi da anni pone ostacoli all'attuazione della riforma sanitaria sono soprattutto i «baroni» e le cliniche private che vogliono mantenere i loro profitti, o i politici e gli amministratori più preoccupati delle loro poltrone e delle clientele, che dell'efficienza del servizio. D'altra parte la ricerca di un organico intreccio tra pubblico e privato-sociale non è solo per ridurre i costi e per più efficienza, ma soprattutto per puntare maggiormente alla prevenzione (che va fatta nel territorio, nelle famiglie e negli assetti produttivi) e per superare la separazione dell'assistito dal suo contesto sociale (l'ammalato all'ospedale, il vecchio al ricovero, il pazzo al manicomio, l'handicappato e l'invalido in un istituto specializzato, ecc.). Occorre evitare vecchie e nuove emarginazioni per questi motivi sociali, ed anche perché i moderni orientamenti medici e psicologici sostengono che i malati guariscono più rapidamente quando vengono curati nell'ambito familiare, le persone anziane invecchiano meno se lasciate in ambiente attivo, i portatori di handicap possono riattivarsi in ambienti normali, i tossicodipendenti possono essere recuperati in comunità terapeutiche. Infatti tutte le esperienze del volontariato e delle cooperative di solidarietà sociale stanno a dimostrare la maggior efficienza del loro intervento insieme alla dimensione umana e di collaborazione che si realizza. È con loro quindi che va ripensato e ricostruito lo stato sociale, per un apporto attivo di movimenti ed associazioni che dovranno rimanere sempre autonomi dai partiti e dalle amministrazioni pubbliche, ma che devono far senti-
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