~D,BIANCO OltLROSSO •iXitilG•i~lkn Intellettualipotere? n amico inglese poco tem- u po fa mi disse che uno dei problemi più gravi dei paesi post-comunisti è costituito dalle loro personalità di spicco che non sanno decidersi in modo chiaro e univoco se essere intellettuali indipendenti o politici pratici. Secondo lui questo dilemma deve essere sciolto al più presto e portare alle giuste conseguenze: convincere gli intelletuali a lasciare gli incarichi pubblici, approfittando delle condizioni di libertà per svolgere il loro compito essenziale, cioè rispecchiare la realtà, liberando i loro posti per coloro che hanno deciso di dedicarsi alla politica pratica. Oppure, sostiene l'amico inglese, gli intellettuali debbono professionalizzarsi, decidersi a diventare dei professionisti della politica, abbandonare le abitudini intellettuali, sottomettersi alle dure regole che tradizionalmente vengono imposte a chi persegue il successo di un incarico politico tipico delle democrazie funzionanti. Comprendo quest'opinione perché conosco bene, per esperienza personale e di alcuni colleghi quanto sia difficile a un intellettuale indipendente - che per tutta la vita non ha fatto che analizzare criticamente il mondo e il cui compito fondamentale era difendere senza sosta certi principi chimicamente puri - adattarsi da un giorno all'altro al mondo della politica pratica. Laddove c'è bisogno con chiarezza erapidità, di decidere tra due alternative, di cui nessuna è ideale, un intellettuale è propenso, a perdersi nelle meditazioni filosofiche, e questo è peggio che scegliere la peggiore delle alternative. Laddove dovrebbe scegliere un semplice slogan comprensibile a tutti, egli tende a imboccare la strada delle complesse riflessioni, agli elettori ben poco comprensibili. Quando Dopo la crisi della politica di Vaclav Havel dovrebbe chiaramente dire che sceglie quell'incarico perché egli si sente il più adatto a ricoprirlo, e quando dovrebbe conseguentemente battersi per ottenere quell'incarico, egli riscopre il dubbio se sia veramente adatto a quel ruolo, esita e rifiuta di combattere, relativizza le sue prime convinzioni dicendo infine ai cittadini proprio ciò che essi non vorrebbero mai sentire: che lui non brama il potere, che quell'incarico lo ha accettato come un fatto inevitabile e ne è quasi una vittima. Ma la gente, giustamente, rifiuta i leader che considerano il proprio incarico un sacrificio e una sofferenza. Quando dovrebbe comportarsi pragmaticamente ed essere aperto ai compromessi, l'intellettuale ritorna alla fede nei principi, diventa poco comunicativo; dovrebbe difendere una scelta e rischiare uno scontro aperto, e invece evoca le sue idee di tolleranza e inizia, quasi con masochismo, ad accostarsi emozionalmente alla posizione del suo avversario. Quando la vita, la necessità, la realtà politica caratterizzano la responsabilità del suo ruolo politico, messo davanti al compito di difendere i fatti, che come intellettuale indipendente avrebbe condannato, si confonde nell'imbarazzo, così che le sue elusioni diventano peggiori della parola secca di chi sa da sempre che la politica è l'arte del possibile. Ogni politico, naturalmente, dovrebbe essere anche un buon capoufficio, in grado di mettersi intorno persone produttive, cui affidare il lavoro nel migliore dei modi. Ma l'intellettuale non ha mai fatto il capo di nessuno, non ha mai avuto impiegati, e tende ancora a fare tutto da solo. Lavora fino allo stremo. E i risultati del suo ufficio, malgrado ciò, sono minimi, quasi invisibili. Come tutte le persone sensibili, se la prende facilmente con tutto e tutti, sop67 porta difficilmente e spesso caci.epreda di depressioni e malinconie. L'elencodi queste e altre carenze potrebbe continuare. Quindi capisco perfettamente quel mio amico britannico. Ci vuole bene, per lunghi anni ha sostenuto gli intellettualiall'opposizione in questi paesi; per questo è preoccupato dei loro atteggiamenti poco pratici, inesperti e persino goffi, talvolta, sulla scena politica: teme che possanomettere in pericolo il frutto nato - tra l'altro - anche dal loro sacrificio pluriennale. Malgrado ciò - lo confesso - c'è qualcosa che in me si oppone all'aut-aut: «O questo, o quest'altro». E se la realtà fosse diversa? E se questa strana situazione in cui molti intellettuali dei paesi post-comunisti sono venuti a trovarsi non fosse un dilemma ma, al contrario, un appello storico? Vale a dire una sfida a provarsi a portare nella politica una tonalità nuova, un elemento nuovo, una dimensione nuova? Potrebbe darsi che nel destino che ci ha colti all'improvviso sia nascosto un messaggio (...). Più volte ho sostenutoche i decenni passati sotto il regime totalitario non significano soltanto una perdita di anni di vita, ma rappresentano anche un'esperienza spirituale specifica, che deve essere messa a frutto,rivalutataper arricchire la conoscenza umana. Non credo che noi si debba essere sempre rassegnati alla triste condizione di chi deve chiedere aiuto al mondo sviluppato, bensì potremmo essere capaci di offrire al mondo qualcosa di particolare. E se questo nostro controvalore fosseuna sorta di vento nuovo, di spirito nuovo, un elemento di nuova spiritualità che possiamo fare irrompere negli stereotipi sospetti della politica contemporanea? Non so se sia proprio così. Nello stesso tempo perché scartare a priori, categoricamente, che così possa essere? (...)
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==