Il Bianco & il Rosso - anno III - n. 33 - ottobre 1992

.{)!I. BIANCO lXtL llOSSO • H i• kuU I i lG(O~• •Xi) Ilnodeidanesi al trattatdoiMaastricht u n gruppo di sindacalisti italiani, in visita a Copenaghen pochi giorni prima del voto, mi chiese una previsione sull'esito del referendum del 7 giugno sul trattato di Maastricht. Risposi: «L'opposizioneal nuovo trattato è più forte del solito e l'impressione generale è che il rigetto della proposta sia possibile. A mio parere, aggiunsi, avverrà ciò che è sempre accaduto: all'ultimo momento i danesi diranno sì, premuti dal ricatto economico e di sentirsi chiamare anti europei». L'ostilità a un progetto di integrazione economica, dettato dall'alto e imposto con pressioni e manipolazioni dei partiti, è stata quella di sempre. La vera novità del voto è che il ricatto economico e la manipolazione politica non hanno funzionato questa volta, neanche all'ultimo momento. Al contrario, quando pochi giorni dopo il voto Jaques Delors minacciò i danesi di escluderli dai benefici del sistema agricolo della Cee, l'indice di ostilità al Trattatoraggiunse la punta più alta e i sostenitori più accaniti del Trattato furono costretti a sconfessare quelle dichiarazioni. Vediamo quali sono le ragioni specifiche e profonde del no. Primo: perché tanta fretta e con continue corse in avanti? Nel corso degli ultimi tre anni sia in Danimarca sia negli altri paesi ci si è faticosamente preparati al gran salto del «mercato interno» previsto dal gennaio 1993. Una forte accelerazione all'integrazione economica dei paesi della Cee, le cui conseguenze sono tuttora oggi, a pochi mesi dall'entrata in funzione, di difficile valutazione ed i cui adattamenti necessari nella legislazione, nelle forme di controllo comunitario, sono in fase di elaborazione. Nel bel mezzo di tante incertezze viene lanciato un nuovo Trattato che, clandi Bruno Amoroso do per scontati i risultati del mercato interno, tutti ancora da verificare, propone il passaggio all'attuazione di una soprastruttura istituzionale che dovrebbe costituire il tetto di una casa ancora tutta da costruire. Una fuga in avanti dunque, fatta per nascondere i ritardi della fase precedente, oppure per creare vincoli politici che rendano impossibile ai vari paesi ripensamenti quando gli insuccessi del mercato interno si manifesteranno in forma piena. Secondo: le forti incertezze che accompagnarono l'approvazione del «mercato unico», subito individuato dai critici come il mercato dei mercanti, ma non dei cittadini europei, vennero in parte placate con la promessa di costruzione di una dimensione sociale parallela a quella economica. Le promesse sulla dimensione sociale si sono venute chiudendo nel giro degli ultimi tre anni, rimaste al livello di slogan per rabbonire sindacalisti ingenui e cittadini angosciati, ma prive di reale contenuto. Che senso assume dunque una integrazione politica, comprendente i servizi di polizia, di sicurezza e militari, in questo contesto? Una possibile anticipazione è stata fornita dal trattato di Shenken sull'emigrazione, nel quale emigrazione, terrorismo e droga vengono trattati allo stesso modo. La scomparsa del sociale dalle politiche comunitarie, con la ghettizzazione permanente dei sindacati al di fuori della stanza dei bottoni, non è una buona premessa sulla quale costruire istituzioni comunitarie inspirate a criteri di equità e di democrazia. Terzo: Tutta la cultura dello stato del benessere, a cui le democrazie scandinave restano fondamentalmente legate, si basa sul principio del riconoscimento del legame esistente tra il politico e l'economico, tra l'eguaglianza e l'efficienza, tra la cooperazione internazionale ed il rispetto dell'autonomia degli stati. La richiesta di un nuovo or57 dine internazionale e di forze militaridi intervento parte, non a caso, dai paesi più forti. E la proposta di una forza di intervento militare europea (o della Nato) è l'ultimo anello di una catena di violenza che la Cee ha contribuito a creare. Quarto: Assenza di spirito europeistico e di solidarietà internazionale? Volontàdi chiudere le frontiere all'emigrazione, a questa grande tragedia frutto del fallimento di politiche dello sviluppo in Europa?Questi gli interrogativi posti spesso ai danesi del no, sui quali si vuole lanciare il sospetto di posizioni di destra e di razzismo. In questo caso, prima ancora che di politica, si tratta di un problema di cultura. I danesi sanno bene cos'è la solidarietà sociale, come la si pratica e quanto costa. Nella loro esperienza di governo, sia nazionale sia locale, questi problemi si affrontanoanzitutto culturalmente, ribadendo i principi di solidarietà e poi, con la matita, facendo i conti su chi e come deve pagare. Ogni comune danese sa che 100 nuovi immigrati o rifugiati politici hanno un costodi accoglienza, di istruzione, di collocazioneal lavoro, di assistenza alle famiglie, ecc. Accertato il costo se ne stabilisce la ripartizione sul carico fiscale dei cittadini e delle imprese. Dalle dichiarazioni di solidarietà alla approvazione del bilancio nazionale/comunale c'è un filo rosso di continuità. Ebbene, tutti parlano in Europadel problema delle migrazioni. Le dichiarazionidi solidarietà non mancano.Manessunovuol fare i conti. Non fare i conti significa accettare il nascere del lavoro nero, di situazioni di disperazione e di miseria. Alcune società sono abituate al dualismo economico e sociale. La miseriaaccanto alla richezza non disturba, forse piace a Milano e a Roma.Di certo è funzionalea qualcuno.Ma non piace ai danesi. La Cee non ha voluto affrontare questo e altri problemi sociali

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==