emulazione seguì due direttrici fondamentali: la prima si configurò come un processo guidato dall'alto che si basava su di un «coeso blocco dominante» realizzato sulla stretta interdipendenza tra Stato, esercito e zaibatsu (grandi imprese controllate da famiglie legate al potere imperiale). La fase di take off industriale e capitalistico avvenne quindi durante un periodo quasi ininterrotto di guerre, quali l'invasione della Cina e della Corea e l'entrata nel secondo conflitto mondiale al fianco della Germania e dell'Italia. Le prime grandi imprese capitalistiche sono nate quindi sotto la pesante influenza degli apparati militari. Anche dopo la fine della seconda guerra mondiale, nonostante lo scioglimento degli zaibatsu da parte degli alleati è rimasta la consuetudine a costruire «reti gerarchizzate» di grandi e piccole imprese (keiretsu e shita-uke) saldamente governate dall'alto. La seconda direttrice (guidata dal basso) è riuscita ad emergere solo alla conclusione della guerra: ·«sicaratterizzava per la scelta della democrazia e per il rifiuto del militarismo» e veniva da un «grande movimento nazionale e popolare volto al rinnovamento della società giapponese», propenso a _faresacrifici per incrementare la produttività e <traggiungere l'Occidente». Come si-intuisce dalla prima direttrice storica, la consuetudine a lavorare per settori e non per singole imprese, a sviluppare forme concentrate di investimento a creare «reti industriali» ben definite e integrate (che si basassero su di un patto d'investimento tra grandi e piccole imprese, su di un rapporto sinergico di cooperazionecompetizione ma raramente di concorrenza selvaggia) pur essendosi sviluppata in modo strategico solo recentemente affonda le sue radici nella storia stessa del Giappone moderno. Oggi la capacità di «clustering» dell'organizzazione industriale nipponica è di per sé un vantaggio competitivo nell'attuale competizione sui mercati internazionali, che è andato a rafforzare una già forte propensione all'esportazione. La seconda direttrice storica si inserisce nell'analisi di quegli aspetti socio-culturali, fattidi un sottile (quanto attualmente instabile) mix di fedeltà alla dottrina shintoista e di acquisizione di una particolare «etica pragmatica»di marca Schumpeteriana, imi)JJ, BIANCO lXtLROSSO • H liii kj) iD I i lG(j)~U•ii portata dagli Stati Uniti. In questo particolare ambiente sociale nasceva una classe lavoratrice diposta ai sacrifici più duri, perché memore di un passato rurale fatto di una ancor più grande povertà e sorretta dalla fede; «docile e collaborativa» ma anche capace di grande creatività nella progettazione e nella realizzazione dei prodotti. Da questa combinazione nasceva nel 1955, su ispirazione dell'economista Nakayama, il «Movimentoper lo sviluppo della produttività» che in questi trent'anni ha rappresentato e rappresenta il punto di contatto tra le politiche industriali coordinate e pensate dall'alto (Miti) e le strutture partecipative dei lavoratori attivate dal basso (quali circoli di qualità, riunioni informali congiunte, ecc.). Fedele ai principi di collaborazione tra Stato e imprenditori privati per raggiungere la piena occupazione (maschile) di dialogo e collaborazione tra lavoratori e management sulle modalità pratiche di gestione e di organizzazione del lavoro e di partecipazione il più imparziale possibile ai frutti del nuovo benessere, il Movimento popolare per lo sviluppo della produttività ha fatto si che i lavoratori delle grandi «imprese-rete» diventassero i primi artefici dello sviluppo giapponese. Ma questo, come vedremo in sede conclusiva, ha comportato dei prezzi da pagare proprio in relazione a quei meccanismi partecipativi la cui degenerazione può condurre a situazioni limite dove lo stress si trasforma inkaroschi o morte del super-lavoro. La democratizzazione del Giappone prese l'avviosolo dopo la seconda guerra mondiale; fu sotto l'occupazione alleata che i sindacati vennero «liberalizzati»(erano stati sciolti nel 1938,all'indomani dell'involuzione nazionalista) ed incoraggiali a divenire protagonisti della democratizzazione. Il primo passo fu la nuova Costituzione (1947)che sancì i diritti sindacali (quali organizzazione dei lavoratori, contrattazione collettiva, diritto di sciopero) come fondamentali diritti umani. Quasi contemporaneamente veniva approvata la Legge Sindacale (1949) che tra le altre cose riconosceva agli accordi contrattuali valore di norma e introduceva un sistema di relazioni industriali molto simile a quello degli Usa dopo il Wagner Act (che risaliva al luglio 1935). Venivano proibiti i comportamenti 53 antisindacali, l'interferenza sulle questioni sindacali e soprattutto veniva punito il rifiuto a contrattare da parte dell'imprenditore. È proprio quest'ultimo punto, che segna una prima importante differenza con i modelli occidentali di relazioni industriali: in Giappone lo Stato non solo assiste e incoraggia la contrattazione collettiva ma impone per legge l'obbligo all'imprenditore di «contrattare in buona fede» con i sindacati (pena pesanti sanzioni amministrative). Questo non va letto comunque come sinonimo di obbligo alla co-determinazione. Manca invece una normativa specifica sui Consigli di fabbrica ma ciò deriva dal «doppio ruolo» che - come vedremo più avanti - il sindacato d'impresa svolge in Giappone. Il ruolodell'impresa Partiamo da un piccolo esempio: se si domanda ad un lavoratore giapponese la professione esercitata si può esser quasi certi che la risposta sarà il nome della ditta presso cui lavora. Infatti «l'impresa suscita un senso di solidarietà e di appartenenza talvolta più grande di quello esistente tra membrf d~llà stessa famiglia e sicuramen~ te superiore al senso di appartenenza allo Stato» [Yamaguchi, 1991]. In qualsiasiparte della compagine sociale si situi ed in qualsiasi gruppo professionale operi, l'individuo sente l'organizzazione imprenditoriale come una «grande famiglia» o - per usare il termine introdotto da Giovanni Paolo II nella sua enciclica Centesimus Annus - come una «comunità di uomini». Quindi, l'unità elementare del sistema nipponico non è percepita solo come un luogo di investimentoo come semplice proprietà degli azionisti («commodity»)ma come un luogo di cooperazione che si regge su accordi Ira allori sociali che pur mantenendo la propria identità hanno stabilito un (implicito) patio per la produttività e per lo sviluppo («community»). È ben chiaro che per reggersi una simile concenzione deve essere condivisa da tutti: accettata dal management come dai sindacali, «proietta» da una adeguata legislazione e da pratiche di relazioni industriali conformi ed inserita in un sistema finanziario che privilegi all'efficienza allo-
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