Il Bianco & il Rosso - anno III - n. 33 - ottobre 1992

illl BIANCO '-XILROSSO l•Xi#Oitl Recuperarce ntridi decisione e di successivreesponsabilità arò franco fino in fondo. Alle S domande (reali e pregnanti) poste da Camiti, credo non convenga proprio rispondere con la solita piedigrotta di elucubrazioni più o meno brillanti. Se oggi lo scopo della discussione sulla crisi della politica e delle istituzioni in Italia ha da essere soprattutto politico (capire per cambiare il corso delle cose; e farlo in tempo utile), allora ogni tentativo di spiegazione dovrà essere necessariamente indirizzato alla ricerca di qualche concreta leva operativa. O, se si preferisce, verso l'individuazione di qualche terapia che sia ragionevolmente semplice e, al contempo, adeguata allo scopo. Mi rendo perfettamente conto che non si tratta affatto di un compito facile. Soprattutto perché la politica italiana soffre ormai di una moltitudine di malanni molto gravi: dalla corruzione alla delegittimazione, dalla frammentazione di ogni assemblea rappresentativa alle quotidiane emergenze finanziarie, dal terrorismo mafioso ai nuovi dualismi fra Nord e Sud (con il primo che chiede autonomia, mentre il secondo sembra chiedere più che altro protezione, per usare le parole di Camiti). Eppure, il riconoscimento che i problemi collettivi da affrontare sono ormai una pletora, non deve affatto indurre alla tentazione delle mille terapie, per il semplice fatto che questo ci condurrebbe pari pari (come ci sta infatti largamente conducendo) alla confusione diagnostica e, di qui, alla paralisi terapeutica. Potrò anche sbagliarmi, ma per me tutti i nostri malanni politici possono essere invece ricondotti a una sorta di causa primaria. Al fatto cioè che il nostro sistema o non riesce a decidere (perché manca l'accordo fra le parti) o prende decisioni pessime: decisioni che, per non scontentare apertadi Giuliano Urbani mente nessuno, finiscono col non risolvere mai un ben niente ... Detto in altro modo, le nostre istituzioni sembrano oggi vittime soprattutto di una malattia che o le paralizza o ne distorce profondamente le scelte. Questa malattia ha un nome preciso: assemblearismo. Per di più un assemblearismo che è a sua volta dominalo dalla logica di una lotta fra fazioni che risultano del lutto incapaci di convivere costruttivamente. Per lunghi decenni la ragione principale delle loro divisioni è stata rappresentata da un'insanabile polarizzazione ideologica; scomparsa quest'ultima, è però subentrala la palude di tanti egoismi corporativi ed elettorali a frammentare ancor di più le assemblee rappresentative di qualsiasi livello. Se il cuore dei nostri mali sta davvero qui, la conclusione mi sembra davvero obbligata. Il mio personale contributo alla discussione aperta da Camiti sta allora lutto nell'indicare, sia pure a grandi linee, il tipo di riforma delle istituzioni politiche che più ci servirebbero. Dico subito che la vera priorità sta nel creare nuovi poteri decisionali, autenticamente democratici. Ciò che intendo con questa espressione è presto detto. Poteri in grado di prendere le necessarie decisioni per rispondere alle esigenze collettive del paese. Poteri che siano perciò dotati di due caratteri essenziali: rappresentatività e controllabilità. Provo a chiarire entrambi gli aspetti. a) Poteri responsabili: in primo luogo verso una consistente maggioranza di elettori, visti nel loro insieme e non più come la somma arlecchinesca di molte fazioni in reciproca competizione. b) Poteri controllabili: in primo luogo da parte di organismi istituzionali che siano forniti di una adeguata rappresentatività popolare. Cosa significa tutto ciò sul terreno delle specifiche riforme istituzionali? Le impli46 cazioni sono probabilmente numerose. Ma credo che possiamo limitarci a considerare Ire principi-base che dovrebbero caratterizzarle. 1. Eleggere esecutivi a suffragio universale (sindaci, presidenti delle giunte regionali, capo del governo), dotati di effettivi poteri decisionali, temporalmente definiti. 2) Eleggere «parlamenti» (dai consigli comunali ai consigli regionali, fino alle camere vere e proprie) che siano al contempo massimamente rappresentativi e specificamente dotati di forti poteri di controllo (fino a quello di approvare o meno, ma sempre in blocco, i bilanci delle rispettive amministrazioni). 3) Decentrare il più possibile le competenze decisionali dei vari organi di governo della cosa pubblica, con l'obiettivo precipuo di responsabilizzare al massimo il rapporto fra governanti e governati (il che implica, ovviamente, anche un simmetrico decentramento fiscale). Per gli amanti dei modelli costituzionali, una simile prospettiva potrebbe essere forse definita con una sorta di semipresidenzialismo di tipo quasi federale, basato sulla compresenza di sistemi elettorali di tipo sia uninominale (nel caso, ovviamente, delle varie cariche di governo monocratico) sia maggioritario a due turni (nel caso, invece, delle assemblee rappresentative). Posso facilmente immaginare due tipi di obiezioni: troppo poco, e, pur sempre, troppo difficile. Quanto al troppo poco, mi limito a evocare una considerazione avanzala molto opportunamente proprio da Camiti, quando dice: penso che non sia possibile fare una politica nuova con una cultura vecchia. E, nel nostro specifico caso, aspirare a una politica nuova richiede innanzitutto una nuova e diversa cultura po-

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