{)JJ, BIANCO lXltROSSO i•Xi®iiil Soloil ritornaoi «valori» restituiscl1eonoraei partiti - 1dibattito sulla crisi dei partiti e del- I la loro politica va prendendo sempre più le forme di un dibattito sulla corruzione. Benché questo sviluppo della riflessione abbia i solidi e clamorosi motivi che conoscia- - mo, esso non mi sembra colpire nel segno. Son d'accordo che questa crisi ha radici morali, meno che si identifichi con la corruzione. Questa è coeva alla repubblica, la cui storia si è svolta - e può essere riscritta, come ha fatto Giorgio Galli - attraverso una sequenza di scandali. Eppure quegli scandali non hanno avuto l'effettodevastante che Tangentopoli sembra possedere. Perché? Una spiegazione, ripresa sul «IlBianco & Il Rosso»da Gian Primo Cella, adduce l'eccessiva lievitazione dei «costidell'intermediazione politica». Finché quei costi si son mantenuti a livelli accettabili son stati sopportati. Poi la loro crescita avrebbe causato quel conflitto tra gli attori (le imprese e i partiti) che ha dato esca all'intervento della magistratura ed alla rivolta dell'opinione pubblica. Questa spiegazione ha del vero. Sennonché vi faccio riferimento non tanto per la quota di verità che contiene, ma per il suo carattere sintomatico. Essa scaturisce in modo diretto da una concezione economicistica della politica che è precisamente parte del problema che abbiamo davanti. Secondo questa concezione la politica è scambio di valori misurabili e divisibili: di interessi, risorse, favori. Il politico è un imprenditore che media questo scambio, organizza questi fattori produttivi, trattenendo a sua volta una percentuale dei valori trattati. Non si tratta di una concezione cinica né in sé antidemocratica. Un secolo fa era un socialista di radicata fede, Giovanni Montemartini, a formulare una teoria dell'«imdi Fabio Rugge prenditore politico» ~traordinariamente lucida e precoce. Chi frequenta le accademie sa che, più recentemente, gli anni '80 hanno registrato in Italia il trionfo di una serie di «dottrine» che si imperniavano attorno a questa concezione della politica: dal dibattito sul corporativismo a quello sullapublic choice. Queste riflessioni, moralmente inattaccabili, avevano in comune - come ha scritto Mauro Calise - una «omologazione tra paradigmi economici e categorie dell'analisi politica». Il loro presupposto è che la politica ha essenzialmente a che fare con valori divisibili piuttosto che con beni tendenzialmente non negoziabili e con i cosiddetti fini ultimi. Ma il trionfo dell'«economicismo» è stato maggiore e ben più deleterio nella «cultura politica» che veramente conta: quella dei pratici. La maggior parte dei quali, per la verità, più che abiurare una politica come testimonianza di valori indivisibili ne è stata, negli ultimi decenni, brutalmente spogliata dalla storia. La cultura cattolicodemocristiana ha visto la sua tavola dei valori frantumata dalle ultime spallate secolarizzanti degli anni '70; la cultura marxista-comunista l'ha vista risucchiata nel vortice in cui si è inabissato il «socialismo» reale. Ai professionisti della politica non è rimasta che l'amministrazione degli interessi; magari la più accorta possibile, ma con l'inevitabile corollario delle operazioni occulte. Se le cose stanno così, non si può non convenire che la vera questione morale non è costituita dalla corruzione, quanto dalla totale eclissi della componente valoriale della politica. Tocco con ciò un punto che oramai sa di ovvietà: le grandi ideologie sono tramontate ed hanno lasciato i nostri partiti nudi come gli alberi d'inverno. Ma il fatto è che invece di preparare una nuova primavera, questi alberi sembrano ora42 mai porgere il tronco all'ascia. Chi credeva che la politica potesse vivere di pura mediazione tra interessi o sostenersi tutt'al più con lo slancio emotivo delle emergenze (la lotta al terrorismo, la lotta alla droga, la lotta alla mafia) è stato servito. La politica non si fa e non si spiega senza i valori, quelli indivisibili, quella con la V maiuscola. Cerco di essere più esplicito e di allontanare dall'argomentazione ogni sapore di moralismo. La stessa corruzione dei partiti è politicamente non moralmente tollerabile quando è sottomessa o - se si preferisce - tenuta a freno da un discorso ideologico coerente e convincente. In questo senso direi - per provocazione almeno - che non è di onestà che abbiamo bisogno, ma di idee, di quelle «idee più grandi», che diventano progetto, che mobilitano la passione civile, che legittimano la contrapposizione politica e poi i governi. Senza di che qualunque «costo dell'intermediazione politica» per quanto basso sarà sempre troppo alto per un'opinione democratica matura. In ciò sta la debolezza della proposta di un «partito di onesti» indicata qualche mese fa come àncora di salvezza, e ancorata invece soltanto ad un profilo negativo, vuota di quei contenuti progettuali di cui vi sarebbe bisogno. Privo di questi nessun «partito degli onesti» può tener fede alla propria etichetta. È chiaro infatti che solo la mediazione dei valori indivisibili, solo l'identificazione di un progetto ideale può tenere a regime la mediazione dei valori divisibili di cui pure si alimenta la politica, ma che - in percentuale variabile - si trasforma inevitabilmente in corruzione. In assenza di un progetto, quella percentuale rischia di salire in maniera vertiginosa; come è puntualmente accaduto. Se questa è la rappresentazione autentica della questione morale, va però allora
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