Il Bianco & il Rosso - anno III - n. 33 - ottobre 1992

,i)-V-, BIANCO l.XILROSSO IU•#J•Mil Politicae morale:né identità né estraneitàotale.Si può? M entre la prima Repubblica si spappola sotto i colpi di maglio di una giustizia ovviamente giusta, anche le idee sono in crisi. Oltre a un demi-monde politico-economico, oltre ai membri finalmente spaesati di un generone insopportabile, oltre ai simpatici perché patetici ultimi comunisti, anche alcune concezioni del rapporto tra politica e morale fortunatamente cominciano a dileguarsi. E la cosa non è da poco, perché - come voleva il grande Rousseau - chi non è capace di pensare insieme politica e morale è destinato a non capire niente dell'una come dell'altra. Ci lascia, speriamo per sempre, il realismo politico di intellettuali finti-cinici e veri-imbecilli, che in preda a furori sadomaso dichiaravano che la forza è l'unica sostanza della politica. Supponenti nipotini dell'incolpevole Machiavelli, costoro azzardavano tesi pompose sull'autonomiadel politico. Non chiedendosi neppure per un istante che cosa significasse una politica destinata a perpetuare se stessa, infischiandosene del destino economico e morale dei cittadini. Bene, ora - grazie anche al contributo del giudice Di Pietro - lo sappiamo. Quello che resta incredibile, però, è pensare che c'è bisogno delle manette per comprendere verità elementari come queste: che senso può mai avere la politica se non ci fa star meglio? Oppure, perché mai striminziti intellettuali, la cui unica forza può essere l'autorità morale, devono rinnegarla in nome del potere delle armi? Misteri insondabili, in cui forse può venirci in aiuto solo l'inconscio, riflettendo sul fatto che molti brutti mitizzano la bellezza, molti deboli la forza, e così via. Confidiamo, però, che si levi di torno anche la presenza noiosa di un moralismo di Sebastiano Maffettone greve e diffuso. Talvolta, si ha l'impressione che l'Italia abbondi di pseudo-Savonarola pronti a impegnarsi in nome di ideali, comprensibili in sé, ma alquanto oscuri se applicati alla politica. Intendo dire che la maggior parte di noi si ostina a vivere nei limiti dell'onestà e della correttezza, ma che questo non ci rende tout-court reggitori di stati, amministratori pubblici o capi di bellicose armate. Conosciamo le litanie di costoro: ci dicono che la città è corrotta, che c'è bisogno di purificare, magari flagellandosi all'insegna dello «sfascio» incombente, che così facendo si avvicina. Temo anche questi miti millenaristici, perpetrati in nome della «gente» e dei suoi «bisogni», di cui siamo invitati a «farci carico», proprio quando sembra esserci necessità di far quadrare i conti e capirci qualcosa. Buon senso vorrebbe, al contrario di quanto vogliono i moralisti, che moralità privata e moralità pubblica siano distinte. Non è detto che vizi privati non si trasformino in pubbliche virtù, e soprattutto non si può valutare la moralità della politica con il metro del buon padre di famiglia. Ma tale differenza ovvia non implica affatto che non ci sia morale nella politica, come vogliono i realisti cinici. Si tratta semplicemente di una moralità in parte diversa da quella personale. La moralità pubblica bada più alle conseguenze che alle intenzioni, più alla responsabilità del politico che alla sua purezza interiore. In altre parole, a fronte di grandi progetti talvolta il politico può e deve sacrificare l'integrità morale personale. La conclusione dell'argomento difficilmente può essere considerata originale. Molti di voi ricorderanno la storia dello sfortunatoAgamennone. Il condottiero greco fu costretto a scegliere tra la vita della figlia Ifigenia e il destino della potente spe36 dizione contro Troia, spedizione, occorre dirlo, fortemente voluta dagli dei. Agamennone ha in realtà poco da scegliere, perché sia sacrificare un innocente sia far fallire la spedizione sono esiti tragici. Proprio per questo, la maggior parte di noi non comprende la punizione dell'eroe: ci sembra che, scegliendo tra due mali, non gli sia mai stata data l'opportunità di ottenere un risultato migliore, e che perciò sia del tutto incolpevole qualunque cosà abbia scelto. Ma, si può ipotizzare che la colpa di Agamennone sia diversa. Forse, il condottiero non è colpevole per aver abbandonato la moralità privata, facendo morire la figlia innocente, in nome della necessità pubblica. È invece colpevole per essersi rassegnato troppo in fretta alla sua tragica decisione, per non avergli saputo resistere più a lungo. Naturalmente, quello che ci interessa non è il pur affascinante destino di Agamennone, ma la moralità della politica da cui siamo partiti. È probabile che una certa aliquota di spregiudicatezza morale sia inevitabile nella vita pubblica. Purtuttavia, questa spregiudicatezza si può tollerare solo in nome di alti ideali e al cospetto di individui che vi si adattino dopo meditatotravaglio.

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