dizione fra recupero della funzione democratica dei grandi partiti e trasversalismo. Certo nel trasversalismo(che del resto è anche la risposta democratica al trasversalismo occulto dei gruppi di interesse) è sempre presente un rischio di trasformismo; tale rischio però è ancora maggiore nella ipotesi di una alternativa giocata tutta nel nuovo accorparsi di vecchie sigle, le stesse che sono state le protagoniste della stagione precedente. Non credo che ci sia nessuna possibilità di una autentica autoriforma dei partiti entro la riconferma della vecchia mappa geografica delle forze politiche italiane, senza insommaun tasso più o meno alto di scissioni, ricomposizioni, nuove nascite, come quelle del resto che ha conosciuto inevitabilmente l'esperienza della svolta del Pci. E ciò perché se la discriminante a favore di una ripresa del significato della democrazia politica è la vera discriminante politica oggi, (con un significato internazionale, per quello che ne deriva anche sul piano della assunzione delle grandi sfide mondiali), è su questa discriminante che si costruirà la geografia delle alternative, delle sinistre e delle destre che ne devono essere le protagoniste. Non c'è dubbio, ad esempio, che per governare la transizione sono di grande valore positivo i segni che vengono da sinistra; il Manifesto per l'unità della sinistra, le prese di posizione di Martelli, l'ingresso del Pds nell'Internazionale socialista, il dialogo aperto con riformatori come La Malfa e Segni. È certo importante una concezione della sinistra da costruire che parta dalla constatazione di un pluralismo di culture e di apporti sociali diversificati e nuovi, non tutti riconducibili a quella tradizione; è essenziale confermare il nesso essenziale fra una riforma elettorale «alternativista» e la costruzione di una convergenza programmatica e politica a sinistra; è qualificante la centralità della questione morale come questione politica per la ridefinizione oggi dell'identità stessa della sinistra. Ma ciò che sarà determinante sarà la capacità di coinvolgere, fuori delle stesse aule parlamentari, esponenti di quella sinistra socialmente radicata e attiva, che sta assistendo da anni fra scoraggiata e delusa, ai processi interni ai grandi partiti, spesso contorti e contradditori. C'è fuori dei professionisti della politica, dialoganti a ,Q!L BIANCO lXILROSSO lit•®iltl giorni alterni, e il cui dialogo, comunque, resta segnato sempre da un sospetto, anche ingiusto, di gioco politico, pro o contro gli schieramenti interni del proprio partito, un mondo di associazioni, impegni, battaglie, dibattiti, che è compiutamente politico e resta fuori dell'uscio solo per la diffidenza verso questa politca. È questo mondo che va chiamato in causa, per la forza che rappresenta contro i processi di frammentazione e disgregazione, per le rappresentanze di bisogni reali di cui comunque si fa carico, per la rilegittimazione che può dare a un processo di aggregazione a sinistra. Solo un tale coinvolgimento può determinare se siamo in presenza di un disperato tentativodella classe politica di salvare sé stessa o di una ricostruzione mirata e coerente che passi dalla Repubblica dei partiti alla Repubblica dei cittadini. Solo così del resto si scioglie quello che può essere chiamato il paradosso della credibilità della sinistra. L'alternativa di sinistra ha scontato infatti una doppia mancanza di credibilità; quella materiale, legata alla non-intesa parlamentare che la allontana come prospettiva realisticamente proponibile, su cui si può puntare; ma anche quella per dir così morale, legata alla debolezza della sua immagine effettivamente alternativa all'attuale sistema, al degrado e alla crisi della politica. E, finora, un passo in avanti nella prima direzione, quella del realismo politico, delle alleanze fra sigle della sinistra, coincideva di fatto,nella sensibilità comune, con un passo indietro nella seconda, quello della credibilità ideale. Questo quadro un po' vecchio, che traspare anche nel dibattito del «Il Bianco & il Rosso», (una uscita dalla crisi tutta giocata attraverso una accorparsi a sinistra dei vecchi soggetti della politica laica e socialista), si esprime anche nell'ultimo residuo ideologico della vecchia politica, quello incrostato sulla contrapposizione ancora fra politica laica e politica cattolica. Ha ragione Baget: un'alternativa «laica» non è una alternativa di sinistra e rischia di riconfermare una insostituibile maggioranza Dc-Psi. E questo perché se c'è una sfida culturale centrale nel ripensamento di cosa significa sinistra, questa è, con buona pace di Bettiza,proprio nel superamento del discrimine laici-cattolici che ha segnato 32 tutto l'Ottocento, nel nostro paese. In fondo oggi per rifondare la sinistra come parte a favore della ripresa democratica, occorre lavorare su due grandi assi concettuali. Il primo è il superamento del mito moderno, che ha provocato i disastri che sappiamo, dell'onnipotenza della politica. La ragione profonda della caduta del sogno dell'ottobre 1917 è una idea della politica come luogo proprio di un compito radicale e totale, di una funzione esclusiva, palingenesi del mondo e dell'uomo. Questa funzione salvifica dell'impegno politico, peraltro comune alla origine con la cultura laica, produce il carattere inevitabilmente totalitario e liberticida del disegno che ingabbia la storia. È del resto qui che si collocano gli altri miti della sinistra, i diritti della rivoluzione e l'enfasi sulla conquista del potere a ogni costo, il ruolo del pubblico e del collettivo fino al rovesciamento del mito della estinzione dello Stato in una riconfermata ragion di Stato, la diffidenza per tutto ciò che non è traducibile in opzione politica, la lettura unilaterale della storia. Ma questa funzione totalizzante della politica è stata anche il terreno più vero della incomprensione fra coscienza religiosa e politica moderna, fra Stato e Chiesa. Ma la sinistra non può ricostruirsi, limitandosi a registrare la fine del sogno di onnipotenza. Nella ricerca di una discriminante di fondo fra destra e sinistra appare centrale proprio l'equilibrio dialettico fra il riconoscimento dei limiti della politica, del rischio di perversità che contiene in sé, e il suo poter essere non solo regolamentazione della convivenza, ma progetto collettivo di liberazione e crescita umana. Per ricostruire la sinistra la domanda è: come non rinunciare, lenendo alte tutte le proprie cautele critiche, senza abbandonarsi né alla ingenuità della certezze, né all'obbligo dello schieramento apriori, alla funzione propria della politica, intesacome funzione generale, carattere distintivo dell'essere umano, responsabilità e diritto; come non rinunciare a quella che chiamerei un'antropologia della legittimità del progetto collettivo, il valore etico di una scommessa sul futuro, il dovere della speranza; e insieme riconoscere la non autosufficienza della politica in senso stretto,il suo debito rispetto a tutte le forme spontanee della vita personale, sociale, cultura-
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