Il Bianco & il Rosso - anno III - n. 33 - ottobre 1992

.{)JJ, BIANCO '-.XltROSSO •1Dlkl)81111 rilevano, solo la guerra ha travolto il nazismo ed il fascismo, consentendo il passaggio alla democrazia, mentre l'Algeria ha sepolto la quarta repubblica francese ed il comunismo, a sua volta, è nato e morto di golpe. C'è però anche chi pensa che i richiami storici non siano altro che il pretesto per imbalsamare l'esistente. Insomma per non far nulla, neanche ciò che potrebbe essere possibile. Oltretutto, aggiungono, l'emergenza economica e finanziaria, la questione morale, la criminalità organizzata, possono bene essere considerate l'equivalente della nostra Algeria. In questi termini la disputa non ha, francamente, alcun costrutto. Il problema non riguarda infatti il diritto ed il potere del Parlamento di cambiare, in astratto, la Costituzione. Ma l'esistenza o meno delle condizioni concrete per poterlo fare. A incominciare dalla maggioranza richiesta, che l'articolo 138(della stessa Costituzione) esige piuttosto ampia. Si può benissimo considerare la cosa non impossibile, ma questo non significa che sia anche probabile. Il problema, dunque, è soprattutto di capire se la commissione De Mita sarà in grado di fare ora quello che invece non era riuscito alla commissione Bozzi pochi anni fa. Personalmente ho più di un dubbio. E credo per valide ragioni. Intanto, se non si vuole che le riforme istituzionali non si riducano soltanto a formule magiche per stregoni della politica, bisogna sapere che è necessario non solo un «cambiamento delle regole del gioco», ma anche della maggior parte dei giocatori. Quella che l'Italia deve risolvere non è infatti una delle tantissime crisi di governo, ma la crisi del proprio sistema politico. Cosa che comporta anche un radicale ricambio del ceto politico che ha prodotto il declino della Repubblica. C'è uno stuolo di persone in Parlamento, ai vertici dei partiti, negli enti pubblici da essi controllati che non sono riciclabili dalla prima alla seconda Repubblica. Sia chiaro non si tratta di un giudizio moralistico. Prescinde dalla questione, pur essenziale di bonificare la politica dalla corruzione e dal malaffare. Ciò di cui parlo è invece la necessità di realizzare una delle caratteristiche strutturali della democrazia rappresentativa che fonda la funzionalità (ed anche la moralità) del sistema sul ricambio periodico delle dirigenze politiche. Infatti l'invenzione della democrazia moderna è stata quella di garantire che le elites governanti non si distruggessero periodicamente, ma si alter3 nassero nei ruoli di comandare e di criticare e controllare. Il nostro sistema ha invece rifiutato l'alternanza ed inventato il consociativismo. Formula in cui tutti, senza distinzioni di responsabilità, si occupano di tutto e nessuno risponde di niente. Con il risultato disastroso che è sotto i nostri occhi. Proprio per questo il ceto politico che ha gestito il sistema, quando esso cambia, deve passare la mano. Quindi anche a prescindere da considerazioni morali o anagrafiche, non c'è ragione per ritenere che un ceto politico formatosi nel consociativismo possa andar bene anche nel quadro dell'alternanza. Molti politici lo intuiscono e reagiscono seppellendo l'esigenza delle riforme istituzionali sotto le palate di terra degli omaggi rituali e dei rifiuti sostanziali. Che le cose stiano così si capisce anche dalle posizioni di merito delle principali forze politiche. I progetti che si confrontano sono infatti sostanzialmente due: quello di chi propone incentivi alla formazione di coalizioni di legislatura e quello di chi chiede l'elezione diretta del capo dell'esecutivo a tutti i livelli (comunale, regionale, nazionale). I sostenitori del primo progetto sono anche favorevoli al mantenimento di una legge elettorale proporzionale, sia pure riveduta con qualche correttivo maggioritario (sbarramento, premio di maggioranza, ecc.). I sostenitori del secondo auspicano invece l'adozione di un sistema uninominale. I primi ritengono, in sostanza, che il problema principale sia quello di rinnovare, nel limite del possibile, i partiti e rilanciare le coalizioni. I secondi pensano invece che le riforme istituzionali ed elettorali debbono consentire di selezionare un nuovo ceto politico e disegnare due nuovi grandi schieramenti per indurre l'alternanza. Sul piano teorico le due soluzioni istituzionali possono anche essere considerate equivalenti. Crisi analoghe alla nostra sono state superate a volte creando le condizioni per governi di legislatura, altre con l'adozione di sistemi presidenziali. Nel caso italiano non è però difficile capire che il consolidamento delle coalizioni non cambierebbe gran che l'attuale stato delle cose. Mentre l'elezione diretta del capo dell'esecutivo costringerebbe a produrre programmi, schieramenti e candidati alternativi, ponendo finalmente rimedio alla grave atrofia del ricambio di cui soffre il nostro sistema politico, liberando, nel contempo, le istituzioni dall'asfissiante invadenza dei partiti. Purtroppo quest'ultima non è l'opzione del pre-

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