e politica s1 era seriamente incriminato. Ma è nel decennio successivo, in particolare durante l'esperienza infausta della solidarietà nazionale, che quella convivenza darà vita ad un vero e proprio divorzio. (anche se non formalizzato, grazie al terrorismo). È inutile spendere troppe parole sullo schema di riferimento di questa interpretazione. La democrazia è intesa principalmente come un regime politico: quindi, come tale, organizzato intorno a strutture precisamente individuabili. Quelle strutture non sono semplici «costrutti normativi», ma ambiti relazionali in cui si sono sedimentati pratiche e culture, memorie e conflitti. Le regole del gioco non vengono dal cielo, ma dalla terra dei contrasti sociali: esse sono l'espressione di un «patto di cittadinanza», che necessariamente si costituisce come base di un negoziato tra generazioni, tra passato e presente. Negoziato, appunto, proprio perché possono essere costantemente ridefinite. Solo gli sciocchi, direbbe Jefferson, le possono concepire come norme sacre: perché solo gli sciocchi possono pretendere che «un adulto continui ad indossare il vestito che gli stava bene quand'era ragazzo». Naturalmente, qui non c'è un evento carismatico da attendere, ma un'opera paziente di riforma delle istituzioni da avviare. Insomma, su un piano logico, oltre che empirico, queste. classe politica è l'effetto, non la causa, della crisi. Le conseguenze Come si può vedere, queste due famiglie di risposte ci conducono in direzioni diverse. A mio parere, la prima famiglia non può che condurre ali' «area di parcheggio»: insomma ci può far perdere solo tempo. La denuncia delle insufficienze della classe politica, senza l'impegno a predisporre un nuovo sistema di incentivi, finisce per essere puro moralismo. Una merce, quest'ultima, di cui questo paese non è sicuramente privo. Dopo tutto, è sufficiente allargare gli orizzonti, per capire che gli schemi neo-comportamentistici non reggono alla prova dei falli. Non siamo l'unica democrazia che si basa su partiti di massa e che, quindi, registra al suo interno ten- .{)Jt BIANCO l.XltROSSO lit•®•Mil denze oligarchiche e conservative. Eppure, siamo l'unica democrazia che si è trasformata in una partitocrazia: che non va tradotta, attenzione, come «governo dei partiti» ma come «regime dei partiti». Insomma, in Italia, contrariamente ad altre democrazie occidentali, i partiti non solo governano, ma dominano, il regime. Naturalmente, so anche che a prova dei fatti non sempre è sufficiente a tacitare l'insipienza. Così capita di ascoltare che il nostro eccezionalismo è dovuto «al carattere mediterraneo degli italiani», oppure «alle divisioni nella sinistra», oppure «alle influenze ecclesiastiche», e così via. Per fortuna degli insipienti, direbbe Montaigne, «l'insipienza non è un reato, altrimenti non si saprebbe dove metterli». La seconda famiglia interpretativa, invece, ci porta via dalle secche moralistiche, restituendo la democrazia ai cittadini. Non ci sono destini da subire o eventi da attendere: c'è un'azione politica da perseguire, utilizzando al meglio la propria razionalità. Sembra poco, ma non lo è. Anche perché essa ci conduce, direbbe Whitman, «in quel mare della democrazia» che molti, nella nostra sinistra, avvertono come minaccioso: quasi fosse quello inesplorato che si nascondeva dietro le colonne d'Ercole. Si sbagliano: quel mare è stato e può essere esplorato. Naturalmente, da chi si è attrezzato con le imbarcazioni giuste. Quelle di una cultura della democrazia concepita come un regime istituzionale riformabile, perfettibile, migliorabile. E, primariamente, come un regime conoscibile. Quali partiti? La cosa non è ovvia. E per mostrarlo faccio riferimento al dibattito sui partiti. Anche qui, tra gli interpreti comportamentisti l'alternativa sembra ridursi alla dicotomia «democrazia con i partiti/democrazia senza i partiti». È più plausibile che si affermi una classe politica adeguata in presenza o in assenza dei partiti politici? Così, chi è in attesa dell'evento carismatico vuole dei partiti destrutturati, cioè leggeri, mentre chi è in attesa della politica-come-servizio vuole dei partiti strutturati, cioè pesanti, 27 in quanto capaci di selezionare i migliori. Il confronto, insomma, come avviene spesso in questo paese, è sugli aggettivi (leggero versus pesante): proprio perché così ci si esime dall'entrare nel merito di cose che non si conoscono. Eppure, il partito politico è un genere che ordina specie organizzative diverse. La distinzione tra le specie non è negli aggettivi, ma nelle loro caratteristiche organizzative. E tali caratteristiche organizzative non sono solo il riflesso delle scelte delle elite dell'organizzazione, o delle pressioni dell'ambiente, ma anche, e direi: soprattutto, delle influenze provenienti dal contesto istituzionale in cui quei partiti debbono necessariamente agire. E allora: di quale partito si parla, quando si discute di una democrazia con o senza di esso? Empiricamente, si hanno e si sono avuti modelli di partito diversi, in relazione alle funzioni che il sistema di governo ha ad essi richiesto. Insomma, i partiti non sono un'escrescenza schopenhaueriana della volontà dei loro dirigenti, ma una componente subsistemica del sistema di governo. Le caratteristiche del loro modello organizzativo non possono essere indipendenti (che non vuole dire: sono determinate) dalle caratteristiche del sistema elettorale (e della formula elettorale, in primo luogo) e dalle caratteristiche della forma di governo. Ecco perché, discutere di partiti, senza precisare in quale rispetto, ci fa perdere tempo. Se non, addirittura, ci porta fuori strada: ad esempio, facendoci confondere il declino dei partiti d'apparato con il declino dei partiti tout court. E se solo pensiamo alla storia dei partiti, e alle numerose trasformazioni del loro modello organizzativo da essi registrate, possiamo renderci conto quanto quella confusione sia ingiustificabile. Per questo motivo, occorre precisare la logica istituzionale con cui si affronta il dibattito sui partiti. Ad esempio, se vogliamo promuovere una democrazia aperta nel nostro paese, allora è di conseguenza che le sue ragioni istituzionali possono difficilmente conciliarsi con le ragioni istituzionali dei partiti d' apparato: partiti che presuppongono l'i-
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