i.>!1- BIANCO U-_11, ROSSO MiiliiilllW apertura o chiusura di frontiere, tra arbitrio del mercato e difesa di nuovi diritti collettivi, tra valorizzazione del singolo e «precettazione» obbligatoria. In questo clima, il secolo si chiude sul trionfo della Chiesa cattolica, con la sua capacità di chiamarsi sopra le parti e proporre messaggi ammodernati, saldati dal richiamo alla sua centralità morale. E il mondo laico è costretto a balbettare, a riconoscere questa superiorità, con non poco imbarazzo di quei credenti (pochi? tanti, ma silenziosi?) che per primi hanno avvertito le contraddizioni di fondo di quella proposta: che sogna una scuola confessionale, disprezza ancor oggi i divorziati, «scopre» le insidie nascoste nelle Messe di Mozart. Una delle poche altenative sul mercato è il fronte della cosiddetta Nuova Resistenza. Torna una lettura del periodo della Liberazione, cara in origine agli azionisti e oggi ripresa con molte similitudini dal trasversalismo post-comunista. L'immagine di un impegno inteso come «moralità armata», di una radicalità progettuale tutta «civile»poi svenduta dai grandi partiti, di uno spirito innovatore meta-politico fondato proprio sullo stretto rapporto tra moralità e cultura. Aldilà dell'utile occasione per una rivisitazione storica, le applicazioni concrete di questo moralismo di moda sono sotto gli occhi di tutti. Andiamo dal sarcasmo anarcoide di Cuore, tutto puntato a sputtanare uomini e idee, fino ai megaraduni tipo la «festa antimafia» a Palermo di metà settembre: 25mila persone commosse per la loro visibilità, ma anche costrette a sorbirsi una filastrocca antimafia da quinta elementare di Jovanotti, Gabriele Laviaa recitare senza voglia Shakespeare e Gassman e far pubblicità al suo Achab. Forse siamo noi a non star più dentro le cose, a poter garantire l'interpretazione autentica di quanto avviene tra la gente: non è comunque un caso se le esemplificazioni che vengono in mente riguardano tutte il mondo dello spettacolo, della cultura, della comunicazione. Ogni discorso etico rischia oggi di risolversiin un nuovo conservatorismo, a forza di universalizzare i temi, oppure in un relativismo, in nome della storicità di ogni valore, che oggi non ci appaga più. Nella dimensione della comunicazione, invece, non c'è spazio per restaurazioni trascendentali. Bisogna accettare, in partenza, la dimensione plurale dei rapporti, la non completa capacità di controllo sugli esiti, l'indebolimento dei soggetti a conronto. Eppure è questo l'unico scenario dentro cui possiamo trovare motivazioni, se non fondamenti. Provare a interpretare senza ricadere nei pregiudizi. Di qui la domanda: quale possibile rapporto tra cultura e l'attuale riscoperta etica? Mi limito a sottolineare solo alcune sottoquestioni. La scuola. Si dice sempre: bisognerebbe cominciare dalla scuola. A che punto è il sistema scolastico? Ha energie proprie, autonome, in parte inspiegabili, che lo motivano aldilà delle burocrazie e delle aule fatiscenti: questo ci dicono gli esperti. Ma se non vogliamo che insegni mero criticismo o pura capacità di adattamento, quale ruolo possiamo realisticamente affidargli? Un'ipotesi di lavoro per una sinistra da ridisegnare passa anche per un proprio progetto sul tormentato ma bloccato rapporto pubblico/privato. Favorire la concorrenza tra sistemi non potrebbe contribuire a rifondare un senso dello stato, visto che finora non siamo stati capaci neanche di insegnare quattro nozioni di «educazione civica»? I soggetti. Gli intellettuali di sinistra sono morti. Hanno fatto la carriera che volevano e hanno imparato a gestirsi i micropoteri, a cominciare dalla scelta dei delfini. Altri hanno saltato il fosso e lavorano per il mondo commerciale, senza rimpianti, anzi giovandosi di una rivalutazione dell'esperienza «sessantottina». Non si sente l'esigenza di nuovi pedagogisti autodidatti, di quelli pronti a spiegarti «cos'è che stai pensando», uno dei parti più pietosi delle politiche culturali degli anni Settanta. Oggi esiste una rete di micro-esperienze, avvicinabili al volontariato, che lavorano nel campo della comunicazione con radicamento sul territorio, ma senza più le ambizioni palingenetiche di un tempo: parlo di gruppi in grado di gestire un Informagiovani, o di realizzare un evento musicale, o di gestire lo sforzocomunicazionale di un ente locale, o di monitorare i Beni culturali di cui è disseminata la penisola (e su cui occorrerà dedicare un discorso a parte, in termini di risorse da cui questo paese può ripartire). Un'ulteriore iniezione di managerialità nei loro confronti non può venire da un progetto mirato alla «trasparenza» e alla «comunicazione» all'interno di una collettività? Sarebbe troppo poco appariscente, oppure lontano dai tradizionali faraonismi programmatori della sinistra?
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