-'.).IL BIANCO lXILROSSO Miikil1111W Controlapenadimorte, segnodi resae di anarchia di Mario Monge L a pena di morte in molti Stati del mondo è ancora sinonimo di giustizia. Assistiamo impotenti ad esecuzioni capitali che non risparmiano minorenni, malati di mente e in più di quaranta casi accertati soltanto negli Stati Uniti d'America anche persone innocenti. Nel mondo, durante il 1991, la pena di morte è stata comminata in 2703 casi in seguito a regolare processo, ma le esecuzioni conseguenti a procedimenti irregolari o segrete sono, secondo una stima attendibile proposta da Amnesty International, più del doppio. Nel 1990 in Cina sono state circa 1000 le persone giustiziate, centinaia in Iraq ed Iran, quattrocento nell'ex-Unione Sovietica, centoventi in Sud Africa, svariate decine negli Stati Uniti, tendenza in aumento dopo la reintroduzione della pena capitale avvenuta nel 1977. La tendenza abolizionista mondiale, accentuata soprattutto in Europa, sta quindi subendo preoccupanti battute d'arresto e se gli stati che mantengono la pena di morte sono scesi sotto ai cento (sui centosettanta stati membri dell'Onu) stanno rafforzandosi nell'opinione pubblica argomentazioni a favore della pena di morte spesso irrazionali e soprattutto non verificate nella realtà. I motivi che esplicitamente vengono addotti sono la giusta retribuzione per i delitti più gravi e il potere dissuasivo che eserciterebbe la paura della pena capitale. Per quanto riguarda la deterrenza, ci sono moltissimi studi che dimostrano che i delitti particolarmente efferati non solo non sono percentualmente inferiori negli Stati che mantengono la pena capitale ma anzi è vero spesso il contrario. Il diritto alla vita è un valore che deve essere insegnato e proposto come inalienabile. La pena di morte lo rende un diritto che può essere contrattato. La pena di morte è la rinuncia dello Stato a proporre modelli educativi percorribili, è la resa dì 12 chi non crede che una persona possa cambiare, possa correggere i propri errori. I condannati restano nel braccio della morte anche diversi anni. Robert Alton Harris, uno degli ultimi condannati giustiziati nella camera a gas di S. Quintino in California, ha atteso per quattordici lunghissimi anni l'esecuzione. Non si possono avere sogni in un braccio della morte, non si può immaginare il proprio futuro, si resta inutilmente in attesa che qualche bollo o qualche firma rendano eseguibile la sentenza. Il responso è perentorio: chi sbaglia deve pagare. Il mezzo è legittimo, garantisce la sicurezza del corpo sociale, è una dura ma impellente necessità, così come è dura ed impellente l'amputazione di un arto cancrenoso. «Amo la vita - disse Paula Cooper, in un'intervista rilasciata dal braccio della morte della prigione di Indianapolis, - l'avrei voluta più divertente, avrei preferito una famiglia più allegra e conoscere persone più disponibili ad ascoltarmi, ma l'amo perché mi è rimasta solo questa. Anche noi che siamo rinchiusi nel braccio della morte ... abbiamo soltanto una vita.» Paula Cooper ce l'ha fatta, anche grazie ad una grande mobilitazionepopolare, ha ottenuto la commutazione della pena capitale in sessanta anni di pena detentiva; sta studiando e dopo aver concluso in carcere le scuole superiori studia Psicologia all'Università. Molti però non avranno la stessa fortuna. La pena di morte è sempre una resa dello Stato. La sua irrevocabilità (che tra l'altro non consente la riparazione ai sempre possibili errori giudiziari), sancisce inequivocabilmente l'impotenza dell'uomo di fronte al male. Quella che alcuni chiamano la «negazione di una negazione indispensabile per riaffermare il diritto della vita e per tutelarlo», non è altro che il
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