"JL BIANCO '-"._IL ROSSO Miikiiiill scato a man bassa nel proletariato e nella piccola borghesia padana, dove pure il sindacalismo confederale ha le sue stesse radici culturali. La «trombatura» collettiva non testimonia solo il relativo interesse dei grandi partiti ad aver eletto uomini di «area» anziché di sperimentata fedeltà. Indica, su un piano più antropologico, il venir meno di quelle identità collettive che in passato avevano dato senso a simili travasi. La gente guarda altrove. La tessera sindacale ha un significato dentro un suo ambito, non oltre. E forse solo un'operazione di verifica nella rappresentatività (sempre auspicata e troppo a lungo differita) potrebbe fare chiarezza su questo punto, con tutti i rischi che comporta. Quando votiamo, ormai milioni di voti si spostano sull'onda di una ricerca di qualcosa che non c'è. Una candidatura d'ambito sindacale, evidentemente, non soddisfa questa sete di «disinquinamento». Cioè non è vissuta come espressione di un movimento riformista con propri tratti autonomi, aldilà del valore del singolo. In assoluto nulla vieta che il sindacato sappia esprimere una dirigenza di livello politico. Purtroppo ha perso anni a discutere del problema alla rovescia, cioé di come si potevano far convivere militanza sindacale e impegni partitici senza rimorsi di coscienza: anzi in nome di un presunto «realismo» modernista. Altro sarebbe stato seguire le strade del Patto referendario. A livello locale si sono già sperimentate, non solo negli anni 50, campagne su più candidati di fiducia presenti trasversalmente in vari partiti. Mai - che io sappia - però dentro una precisa strategia unitaria tra le tre confederazioni: che è come dire che ognuno ha solo tentato di rafforzare il proprio livello di pluralismo interno. Gli anni sono trascorsi e le decisioni stringono. Il sogno di «correntoni» più o meno vicini al sindacato (e non solo una cordata di potentati) è finalmente al termine? Difficile crederci. Oltretutto angoscia come le vecchie identificazioni si rinsaldino là dove più ci sarebbe da fare, cioè dove è tutta da spiegare la sfida di questi anni 90: certe fabbriche ferme nel tempo e dove il massimalismo a parole copriva una cogestione nei fatti; certo mondo dei servizi pubblici, convintissimo che il primo passo verso l'efficienza tocca sempre a qualcun altro; certo terziario poco o nulla avanzato, che sa di essere a rischio nell'operazione di riequilibrio fiscale, dato che i conti dello Stato non po9 tranno pagarli a questo punto solo le imprese. C'è poi un ultimo aspetto che riguarda gli uomini. Se si rompono i meccanismi del passato, chiamateli di «cooptazione» o come volete, un pezzo di dirigenza sindacale può ritrovarsi senza futuro. È un elemento da non sottovalutare al momento di dare giudizi, anche perché il ricambio verso una dirigenza sindacale non solo più giovane, ma più colta, preparata, intercambiabile è ancora tutto da completare. Tutta la discussione ha urgente bisogno di uscire dai facili moralismi, ma anche dall'«ingrottamento» imbarazzato che l'ha contraddistinta in questi anni, salvo qualche voce «estrema». Quando tutti i Muri cadono, anche quelli coi manifesti della campagna elettorale, conviene stare attenti a non essere travolti dalle macerie. Staremo a vedere come il sindacato, nei tempi brevi, interpreterà il bisogno di autoriforma dello scenario politico italiano. Può restare a guardare. Oppure intrigare a favore di coalizioni «forti» ancorché inedite pur di consentire una qualche governabilità. Oppure ritrovare un ruolo di proposta davvero autonomo, che inevitabilmente passa per lo scompaginamento non solo degli schieramenti, ma anche delle culture di appartenenza. In fondo solo così è ben pensabile riuscire nella impresa di ridare piena dignità al tema «lavoro» in un paese ubriacato dalla ricerca di un più alto «valore aggiunto» sempre e comunque. C'è proprio bisogno di trovare un mitico nuovo modo di far politica, provando ad uscire dai vezzi della partitocrazia italiana. Nel caso del sindacato, dunque, resta più che mai urgente il dovere di autoriformarsi non solo depurandosi dalle «tossine» correntizie, ma soprattutto proponendosi, come esempio concreto di «apparentamento» tra culture riformiste capaci di progettare e controllare.
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