i.).lLBIANCO lXILROSSO Mii•Cilld stione del rapporto sindacato-partiti ha assunto negli anni toni così ripetitivi da non esercitare alcun fascino. Tuttosembra essere già stato scritto e detto. l'articolazione delle posizioni tra i massimi dirigenti è delineata: le «correnti» (di pensiero o di partito) alimentano se stesse senza apparenti difficoltà. Un problema «elettorale» sembra non esistere, se non si sente neanche l'esigenza di porlo all'ordine del giorno in modo pubblico. In effetti, tranne un documento sulle «regole» da tenere durante la campagna in casa Cgil, dall'esterno neanche stavolta si sono potuti notare segnali di novità. Le novità, invece, nella sostanza di questa dura e babelica campagna c'erano e ampiamente annunciate. Davvero il sindacato italiano non ne coglieva la portata, a parte pronunciarsi per l'urgenza di riforme istituzionali tutte da mettere a fuoco? Il sospetto di un ritardo, o meglio di un pregiudizio nell'ottica delle confederazioni, è rafforzato dalla debolezza dei commenti sindacali post-elettorali. Davanti alla frantumazione delle liste e al prevalere di un voto chiaramente di protesta il sindacalista appare smarrito. Sa che veder disperdere un chiaro riferimento in Parlamento può fargli perdere un ruolo politico lungamente e faticosamente conquistato. L'invocazione improvvisa e da posizioni inattese di un «governissimo» Dc-Pds-Psi va interpretata come preciso segnale di questa angoscia da abbandono. Forse mai il sindacalismo italiano degli ultimi 20 anni si è sbilanciato a favore di una certa coalizione, come in questo caso, anziché attenersi alla consueta posizione di equidistanza e di attesa di valutare precisi programmi. La situazione del dopo-voto è eccezionale, naturalmente. Le scadenze legate a rinnovo di cariche, varo di manovre economiche urgenti, decisioni in merito alle riforme istituzionali si accavallano, senza che si veda ancora un'agenda dei lavori. Chi ha sognato un sindacato così «adulto», da poter fare a meno di un governo amico, oggi è costretto a ricredersi. Nei prossimi anni non basterà dare bacchettate sulle dita ai governanti inetti e sognarne di migliori: sempre più, in questo caos di proposte, il sindacato è chiamato a precisare intanto le sue. E dunque lo spazio di contatto con partiti e istituzioni si fa più stretto e non più rado. Il bisogno di interlocutori reali e non di fantasmi 8 si fa vitale, pena la stessa perdita di significato di un'azione complessiva anche sui temi-tabù nelle relazioni sindacali in altri paesi, a cominciare dal fisco. Ben venga dunque una maggiore attenzione alle vicende della rappresentanza politica in Italia e della sua efficacia. I problemi per il sindacalismo confederale nascono però a questo punto. E il ritardo di una riflessione aperta appare in tutta la sua evidenza. Con quali schemi il sindacalismo italiano sta vivendo questa fase di mutamenti? Schemi vecchi e logori, testimoniati da numerosi episodi proprio in questi mesi. Anziché anticipare il bisogno di mutamenti nel modo di far politica largamente diffuso tra la gente, si è preferito cavalcare alcune singole iniziative ritenute forti. Ha iniziato Giorgio Benvenuto, alla vigilia della campagna elettorale, con un repentino salto di poltrona, che ha scatenato una dura polemica. Aldilà delle valutazioni sulla affidabilità di un exsindacalista in un ruolo di dirigente pubblico («meglio lui, che chissà chi», veniva da rispondere), modi e tempi dell'operazione restano opinabili e poco possono aver contribuito a disegnare un'idea di autonomia sindacale nel normale contribuente. La saga tra Marini e Sbardella, alla ricerca della leadership provvisoria sulla Dc romana, ha sfiorato i toni della telenovela. Condotta sul filo del ricorso ai probiviri (mega-assemblee di sindacalisti Cisl spacciate per presentazioni di libri) e del buon gusto, ha visto un tasso di partecipazione e coinvolgimento capillare da lasciare sconcertati. Forse dai tempi del referendum della scala mobile non si vedeva tanto attivismo: ma la posta in gioco era, francamente, ben diversa. La realtà finale di tanta agitazione sul territorio nazionale dovrebbe indurre a molti ripensamenti. Non è infatti solo colpa della preferenza unica se, insieme ai Monticone o agli Elia, non ce l'abbia fatta la quasi totalità di candidati di provenienza sindacale. La distanza tra tendenze dell'elettorato e spinte sindacali ad una sorta di auto-rappresentanza in Parlamento non poteva essere più evidente. Innanzitutto la massa di ex-sindacalisti sceglie (o si limita a dare evidenza) un ristretto arco di partiti, i più forti e tradizionali. Non vediamo all'orizzonte candidati attratti dai Verdi, o da Pannella, o da Orlando, né dalle Leghe che pure hanno pe-
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==