Il Bianco & il Rosso - anno III - n. 28 - maggio 1992

e il coraggio per compiere gli atti di autochirurgia che le circostanze impongono. Le discussioni odierne confermano i miei timori. La forma-partito è in crisi, ma i partiti non se ne rendono conto. Sono seduti su un vulcano, la situazione precipita, ma i partiti continuano a riunire i loro organi direttivi, si incontrano fra loro, intessono le loro trame laboriose, forse aspettano che il problema della loro delegittimazione psicologica presso il pubblico italiano medio, se tenuto abbastanza a lungo in evidenza senza però fare assolutamente niente, si dissolva ed evapori per conto suo. Ciò è già avvenuto in passato. Forse l'esperienza passata potrà ripetersi e gli organi direttivi dei partiti italiani, con poche, pochissime eccezioni, sperano che si ripeta, che la soluzione della loro crisi attuale risulti indolore, che tutto possa riprendere come prima. È lecito dubitarne. L'opinione media italiana è ormai allergica ai partiti: al loro linguaggio, alle loro furbizie, alla loro disonestà, alla loro fondamentale tendenza a durare, ma non a dirigere, ossia a concepire il potere come un appannaggio privato passivo, non invece come una funzione razionale collettiva. Pur nella rozzezza del suo gergo politico o, anzi, pre-politico - o forse proprio in grazia di questa rozzezza, che certamente fa appello a una sorta di nuova «Italiabarbara» alla ricerca di una «rivoltadei santi maledetti» - la Lega Nord interpreta questa insofferenza. Anche qualche uomo politico ha avvertito, all'ultimo momento, la gravità della situazione e ha cercato di farsi accreditare come lancia spezzata dell'opposizione. Ma l'impresa, in sé lodevole, sa ancora di furbizia partitica. È stata troppo rapida, troppo lesta di mano e di linguaggio, per non far credere più ad un gesto da stenterello che alla chiaroveggenza del grande Machiavelli. L'idea che si trattasse di un calcolo di bottega ha fatto aggio, presso l'opinione pubblica informata, sulla meditata decisione di una svolta radicale e senza ritorno. Finqui siamo nel campo, del tutto opinabile, delle riflessioni metodologiche. Se scendiamosul piano dei contenuti sostanziali, le elezionidel 5 aprile costringono ad iniziare un discorso molto serio. Io non credo, come qualche specialista dei «flussielettorali», che abbiamo ormai tre Italie: una leghista,una seconda «rossa» ed una terza Ita- ..P.lL BIANCO l.XILROSSO I•X•#i i Iti lia devota al governo in carica. Ma è un fatto che l'Italia del voto si presenta oggi spaccata in due. Che la Lega Nord sia oggi la forza politica di maggioranza nella Padania vuol dire in tutta chiarezza che la distanza fra il Nord e il Sud è paurosamente aumentata, che Nord e Sud sono più separati che mai. Può ben darsi che la Lega Nord si appelli al «gran lombardo» Carlo Cattaneo, pur nella sua quasi commovente inconsapevolezza culturale, cui certo non sarà sufficiente a porre rimedio il chiuso giuridicismo di Gianfranco Miglio. Sta di fatto che la Lega Nord ha di colpo cancellato il Risorgimento, l'incontro a Teano,tutti i luoghi classici della nostra prima educazione politica. L'unità d'Italia - quella sostanziale, sociologica, non quella retorica delle perorazioni ore rotundo - è certamente da oggi in pericolo. I voti della Lega Nord pesano in questo senso come macigni. Ho letto su un muro dell'autostrada Torino-Aostaquesta scritta lapidaria: «Roma, il cancro; il Sud, la metastasi». Se i partiti rifiuteranno, come posso anche capire, l'autochirurgia, 37 se non abbandoneranno in fretta le predatorie abitudini che li hanno portati a usurpare la sovranità popolare, c'è da temere che la «seconda spallata» arrivi anche prima del previsto. Scriveva Holderlin che «là dove maggiore era il pericolo, precisamente là cresce ciò che salva». Forse il misterioso verso del grande poeta tedesco potrebbe riguardare oggi la frantumata sinistra italiana. Il bisogno di cambiamento che è nell'aria e che certamente, almeno in parte, ha determinato il successo della Lega Nord in una misura imprevista, contiene elementi anche di sinistra. Bisogna chinarsi con tutta l'umiltà di cui si dispone e interrogare i dati del paese profondo. Nel voto della Lega vi sono indubbiamente aspetti inquietanti di intolleranza e di xenofobia, forse addirittura di discriminazione razziale. Ma vi sono anche semi di riforme strutturali che rientrano agevolmente nella grande tradizione del socialismo libertario. Chi si scandalizza per un voto così «sovversivo» proprio nelle regioni più ricche del paese, dimentica che solo la miseria è veramente conservatrice. Alla vigilia della Rivoluzione francese la Francia stava attraversando una fase di relativo benessere. La sinistra deve riformulare l'eredità riformistica, distinguere fra riformismo spicciolo e intervento riformatore, abbandonare la forma-partito, colpita da una crisi irreversibile, e dar vita ad un riformismo nuovo. Tradizionalmente, il pensiero e la prassi socialisti hanno oscillato fra un riformismo dei piccoli passi, che tendeva, come il viaggiatore di Marco Aurelio, a dimenticare lo scopo del viaggio lungo la via, e un riformismo rivoluzionario, massimalista, in realtà parolaio e velleitario. Occorre un nuovo riformismo per il Duemila: capace di procedere con le riforme possibili, secondo il giudizioso minimalismo di un accorto pragmatismo, e nello stesso tempo in grado di inserire ogni suo piccolo passo nel piano strategico del suo disegno globale. Non più un partito giacobino, centralizzato, ma una flessibile federazione di gruppi socialmente consapevoli riuscirà probabilmente a elaborare e a percorrere le vie nuove del riformismo sociale di domani. Trent'anni fa era questo il sogno del Movimento Comunità e di Adriano Olivetti. I tempi non erano maturi. Eravamo inanticipo. Oggi si rischia di essere obsoleti.

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