Il Bianco & il Rosso - anno III - n. 28 - maggio 1992

.{).lLBIANCO lXILROSSO ibi•ililiil in tonache sacre. Prima di tutto il Regno, di Dio e dell'uomo indissolubilmente: ha vissuto le stagioni della Chiesa cattolica di questo secolo senza mai ripiegarsi sulle sconfitte o esaltarsi nelle vittorie. Il suo radicalismo evangelico lo ha reso insieme lontano e vicino a tutti. Lontano, perché presentava a tutti ciò che dovremmo essere, e non siamo. Vicino, perché ascoltandolo pareva possibile che si realizzasse anche in noi ciò che egli, come in visione, preannunciava e anticipava. Il mese scorso, a Milano, ho incontrato Christa Wolf, la grande scrittrice tedesco-orientale che ha sognato in anticipo una libertà che è ancora in arrivo. Ad un certo punto essa ha detto che «lasperanza è l'unico antidoto all'odio». Proprio così: Ernesto, come prima di lui DavidMaria Turoldo, due grandi amici e profeti di questa Italia sempre più in bilico, è stato un grande uomo di speranza, e perciò di pace. Se ne è andata una grande parte di noi, la migliore, ma il compito resta ancora da svolgere. L'ultima parola vorrei fosse la sua. Al termine della intervista autobiografica di cui ho detto sopra, nell'ultima risposta a Luciano Martini, ci sono alcuni periodi che mi pare prezioso riportare qui, come conclusione di queste mie righe esitanti. Sono brani delle pagine 151-154,con alla fine la conclusione stessa del libro, che mi pare sia come una istantanea che ci consente di vedere un lampo della luce che ha illuminato la vita di Ernesto Balducci, come illumina quella di ogni uomo di autentica buona volontà, secondo l'espressione del Vangelo che non si rivela mai vecchio: «Lalaicità indica il livello stesso della coscienza dell'uomo di oggi ... Cerco di usare un linguaggio non sacrale, ma quello di tutti i giorni, in modo che uno senta parlare del Vangelo con lo stesso linguaggio che sente in casa, all'università, nel mezzo televisivo, senza concessioni a quella schizofrenia specifica della coscienza religiosa che parla in un modo a scuola e in un altro in chiesa. Questa non è, a mio avviso, una scelta riduttiva perché il momento specifico della predicazione evangelica non è l'elemento religioso, ma l'indicazione profetica. Quando parlo del regno di Dio in maniera laica, come del regno della fraternità, dell'uguaglianza, della condivisione dei beni della terra, non riduco l'annuncio messianico, lo traduco. Vada sé che dovrò anche ricordare che esso è un evento in cui coincidono la fatica dell'uomo e la decisione di Dio, e non un puro prodotto im15 manentistico della storia... Più che una transizione alla laicità, come a volte mi è avvenuto di dire, si tratta di una immersione della laicitànella profezia, di una iscrizione della razionalità comune dentro il cerchio di un orizzonte che ha misure ben più vaste di quelle della ragione; è lo stesso orizzonte dell'uomo possibile, su cui batte la stessa luce che, nei momenti di preghiera, illumina il mio occhio contemplativo. La mia è, dunque, per usare l'espressione di un Padre greco, una fuga immobile! La stanza in cui dormivo da piccolo aveva una finestra che dava su un dirupo (la casa è ancora lì, appollaiata sulle mura medievali) oltre il quale si alzava una breve cornice di poggi. Ai lati del dirupo, la lunga sagoma di un antico convento di Clarisse. Di notte, a piu riprese, la campanella chiamava le monache a «mattinar lo sposo». Di tanto in tanto,mi capitavadi scendere dal letto, al suono della campanella, per osservarenel buio accendersi una dopo l'altra le minuscole finestre delle celle e poi spegnersi. Ora mi spiego il fascino di quello spettacolo notturno, che mi godevo da solo, quasi furtivamente. Era come se mi affacciassi all'altro versante della vita, dove il tempo ha ritmi diversi dal nostro, è un tempo inutile, il tempo dell'Essere, il tempo che gira su se stesso, col passo di danza, e non si cura del nostro, che è il tempo dell'esistere. Potrei dire che io, da quella finestra, non mi sono mai mosso. Addio, Ernesto! A quella finestra arriveremo anche noi.

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