JSS1120-7930- SPED.ABB.POST. - GR. mno% ~lLBIANCO l.XILROSSO MENSILE DI DIBATTITO POLITICO , I Dopo il 5 Apriler:iforme. Eanchesolidarietà L di Pierre Carniti e elezioni del 5 e 6 aprile possono aprire una fasle nuova alla nostra vita collettiva. Ma perché questo possa avvenire la prima cosa che serve è che esse contribuiscano ad una chiarificazione capace di sormontare atteggiamenti sempre più diffusi (e preoccupanti) di disamore, di fastidio verso la politica. Sono posizioni che (come abbiamo ripetuto tante volte su queste pagine) nascono da uno scetticismo, non del tutto immotivato, sulla sincerità di certe intenzioni e delle parole elargite dalla politica. 26/27 ANNOIIl0 •MARZO/APRILE1992•L. 7.000 BibliotecaGinoBian••---------------•
IN QUESTO NUMERO EDITOIUALE Pierre Carniti Dopo il 5 Aprile: riforme. E anche solidarietà pag. l ATTUALITA Raffaele Morese Il patto nuovo possibile: prezzi, tariffe, salario e fisco pag. 5 Teresa Petrangolini Salute. Una giustizia elementare: il medico che sbaglia pagherà pag. 8 Carlo Pignocco Case: lo Stato vende? Non sia una manovra per i furbi pag. 10 Carlo Mitra Privatizzare i servizi? Sì, ma con regole e tutele pag. 12 Giovanni Gennari Peppone non c'è più. E don Camilla non cambia? pag. 13 Chiesa italiana e unità politica nella Dc: chi paga? pag. 15 DOSSIER Rinnovare la politica: per una sinistra di governo pag. 25 Stefano Ceccanti Una nuova sinistra riformista? Prima di tutto regole nuove pag. 26 Gian Primo Cella Per le riforme necessarie: rimettere al centro la società pag. 27 Ettore De Marco Per una ripresa a sinistra: cultura, etica, solidarietà pag. 29 Franco Ferrarotti Una grande autoriforma prima che sia tardi pag. 31 Agostino Marianetti « Unità socialista» futura. Stabilità e risanamento oggi pag. 32 Alberto Martinelli Per le riforme: superare la divisione a sinistra pag. 33 Domenico Rosati Ripensare l'idea di sinistra. Il resto è finta politica pag. 34 Giorgio Ruffolo Per una sinistra nuova: umanesimo etico e democrazia sociale pag. 36 Ferdinando Siringo La vecchia politica è fallita. Una Costituente per la sinistra pag. 37 Giglia Tedesco Parlamento: modificare struttura e poteri effettivi pag. 39 Giorgio Tonini Urge il nuovo, ma musica e suonatori sono vecchi pag. 40 L'EUROPAE IL MONDO Nereo Laroni In Jugoslavia, oggi, rischia l'Europa intera pag. 43 Igor Man Perché l'Algeria di oggi non è l'Iran del 1979 pag. 44 Gian Piero Orsello Maastricht: un passo avanti di un cammino da proseguire pag. 46 INTERVENTI Cristina Nespoli Obiezione: apologia di una nuova legge pag. 49 DOCUMEI\TO Turoldo: un segno di speranza profetica (G.G.) pag. 52 L'Eterno perché. e l'unico Dio; «Lo canterò più tardi!» (Brani conferenza Roma 15 ottobre 1987) pag. 53 Un canto stupendo di fede e di pace (Omelia del cardinale Martini. .. ) pag. 54 Poesie da «Canti ultimi» pag. 56 Immagini: incisioni di Giorgio Morandi BibliotecaGino Bianco
.Pll, BIANCO '-Xli.ROSSO IMiHkUAliNI Sono quindi posizioni che possono essere contrastate solo con una forte correzione dei comportamenti che imprima più trasparenza, più ricambio e più moralità alla vita politica. La condizione perché questo si verifichi è legata alla effettiva capacità e volontà di cambiare regole istituzionali ed elettorali ormai ossidate, promuovendo una indispensabile riforma fondata sul duplice riconoscimento: del principio di responsabilità e della più larga autonomia. L'esitodelle elezioni deciderà inoltre del modo con cui sarà affrontata l'altra grande questione: quella del risanamento economico e finanziario. A questo proposito si deve, innanzitutto, riconoscere che uno Stato che funziona poco e male, uno Stato debole, uno Stato sperperatore e partigiano, è uno Stato che non corrisponde alle esigenze di coesione e solidarietà. Perché è inerme e si arrende di fronte alle prepotenze, alle chiusure corporative, che esprimono, di solito, le posizioni di chi è più forte, non di chi ha più ragione. Bisogna anche dire che nelle politiche di risanamento non è il rigore che offende. Ciò che offende è il privilegio. Sono assurde diseguaglianze nella ripartizione dei costi. È la mancanza di equità. L'eguaglianza non è, infatti, un orpello da demagoghi. Eguaglianza, ovviamente, non intesa come omogeneità forzosa, come requisito alla formazione di masse anonime, ma come l'insieme delle possibilità basilari che attribuiscono cittadinanza a ciascuno e che gli consentono di rispettare e sviluppare la propria personalità. Perché ciò sia possibile la condizione resta la solidarietà. La tendenza cioé a riconoscersi in un comune destino al di là dell'immediato. Questa considerazione deve spingere ad una appropriata riflessione in ordine ai criteri quantitativi e, soprattutto, qualitativi di riorganizzazione dello Stato sociale. Il dato da cui occorre partire è che, mentre diventano più determinanti per la qualità del vivere i servizi ed il tipo di ambiente sociale, lo Stato Sociale, grande ed incompiuta conquista dei lavoratori e del movimento riformista, viene messo fortemente in discussione. In discussione per il suo costo che produce deficit, inflazione, crescente peso fiscale. In discussione per la sua scarsa efficenza. In discussione perché risulta troppo ingombrante ed onnipresente. Per difenderlo occorre perciò riformarlo sul serio. In caso contrario si rischia di smantellare un riferimento che è invece indispensabile ad una crescita della socializzaBibliotecaGino Bianco 3 zione. La parola socializzazione è da qualche tempo un po' screditata perché nei paesi dell'Est aveva assunto, nei fatti, il significato di statizzazione. In realtà essa esprime, invece, l'istanza solidaristica. La difesa delle «legature» negli ordinamenti pubblici e nelle varie istituzioni. Come è noto in questo secolo il compito di assicurare il rispetto di alcuni fondamentali diritti sociali, è stato assolto con una progressiva costruzione dello Stato Sociale. La sua realizzazione ha tradotto, in termini di moderna democrazia dei ·servizi, funzioni che derivano da valori di solidarietà, mutua assistenza e spirito cooperativo propri del mondo del lavoro. Il passaggio allo Stato di questi compiti, ed il loro sviluppo, ha prodotto una enorme quantità di benefici. Ma ha dato anche luogo, nel tempo, ad una serie di problemi di ordine economico e funzionale che sono oggi al centro del dibattito politico, in Italia come nel resto dell'Europa. In discussione sono le dimensioni della spesa pubblica, ma anche la qualità delle prestazioni. La cosidetta «crisiburocratica» dello Stato Sociale esige quindi un duplice ordine di cure che affronti entrambi gli aspetti del problema. Un importante indirizzo della cultura politica, che si ispira ai valori del riformismo e della solidarietà, suggerisce di curare l'elefantiasi e la burocratizzazione dello Stato Sociale con l'immissione nei suoi apparati del sostegno e della partecipazione della società civile, dei gruppi organizzati, del volontariato, delle cooperative di solidarietà sociale. Pensiamo si debba condividere questo indirizzo. Mentre non è affatto condivisibile la posizione di chi tende a considerare tale richiesta di partecipazione e di presenza come intrusioni di un mondo arcaico o, addirittura, vagamente confessionale. Insomma una sorta di regressione rispetto alla moderna cultura dei diritti sociali dell'individuo. Non si può condividere questa posizione proprio perché lo Stato Sociale è anche espressione di quei valori di mutualità e solidarietà di cui dovrebbe essere, per molti aspetti, la realizzazione più compiuta ed universale. Questa considerazione non ci induce, naturalmente, ad oscurare un altro incontestabile dato di fatto. Vale a dire che l'universalizzazione della solidarietà attraverso lo Stato ha comportato, accanto ad una crescita quantitativa delle prestazioni, un impoverimento della sua qua-
.{)-l), BIANCO '-Xli.ROSSO iii)ikUAlill lità umana, una riduzione del suo spessore solidaristico. Fino al punto che la «burocrazia del benessere» si presenta al cittadino come una realtà estranea e spesso ostile. Proprio come gli altri apparati dello Stato. Che lavoratori e movimento riformista in Europa occidentale abbiano saputo tradurre in strutture pubbliche alcune fondamentali rivendicazioni economiche e sociali è, quindi, un progresso al quale non si deve rinunciare. Ma che queste strutture, anche in relazione ai loro costi, producono un trattamento insoddisfacente per le persone è un problema che non può più essere eluso. Quella che va affrontata è perciò la «crisi sociale» dello Stato Sociale. Ci riferiamo, in particolare, al fatto che le persone nel loro rapporto con la burocrazia, con le strutture che gestiscono lo Stato Sociale, vedono troppo spesso contraddetta la loro natura di esseri umani corredati, oltre che di BibliotecaGino Bianco 4 diritti individuali, anche di bisogni collettivi, di radici, di una storia personale, di legami con i propri simili. Crediamo quindi che si debba pensare ad una seria trasformazione dello Stato Sociale attraverso il ricorso alla società civile, al volontariato, alle cooperative di solidarietà sociale. Si tratta in sostanza di «socializzare» lo Stato Sociale attraverso un progressivo inserimento di questi organismi solidaristici. Scelta che, oltre tutto, permette di attuare un indispensabile decentramento ed il coinvolgimento dei cittadini nel suo funzionamento, in modo che esso diventi anche un fattore di coesione sociale. Diventi cioé anche una struttura in cui si organizza, davvero, l'aiuto reciproco. L'auspicio,naturalmente, è che il Parlamento che sarà eletto il 5 e 6 aprile, per la sua composizione, abbia la forza e la capacità di camminare lungo questa strada. .. ·.··, ' ·' ~ ,, ,· , =~~~,~~~~~-~v ,
- I - ~!LBIANCO l.XILROSSO ATTUALITÀ Ilpattonuovopossibile: prezzi,tariffe,salarioe fisco di Raffaele Morese n questo periodo non si discute solo di elezioni. E per fortuna. I problemi di una società complessa come la nostra non possono essere accantonati neanche se i protagonisti politici lo volessero. E tra quelli più emergenti non vi è dubbio che c'è la questione del governo della economia. Chi più, chi meno, ma sostanzialmente tutti convengono che ciò che non ha potuto fare un governo agonizzante, lo deve comunque fare un nuovo governo post-elettorale: definire un disegno compiuto di politica economica. La convinzione diffusa è che la stagione dei pannicelli caldi sia finita. Ci vogliono terapie di una certa consistenza per addrizzare le gambe su cui poggia il bilancio dello Stato, per riqualificare lo Stato sociale, per abbattere l'inflazione, per dare alle imprese competitività e per ridurre gli squilibri sociali. Soltanto così l'Europa non ci terrà fuori della porta. Ovviamente , questa consapevolezza coinvolge anche il sindacalismo confederale che esce da un'intesa tripartita, quella del 10 dicembre scorso, non senza difficoltà ed incomprensioni. Circa le difficoltà, va detto che erano state messe nel conto, man mano che la trattativa entrava nel cono d'ombra della fine della legislatura. Non fare nessun accordo era possibile, ma avrebbe solennemento sancito l'impotenza delle parti sociali in una 5 società nella quale la politica è già tanto ingombrante. Circa le imcomprensioni, quelle con i sostenitori della «scala mobile non si tocca» - che si sono ritrovati al Lirico di Milano - sono scontate. Meno quelle con analisti intelligenti come G.P. Cella (v. «Contratti: avanti adagio, quasi indietro». Il Bianco & Il Rosso, n. 24, 1992), che sostanzialmente critica l'accordo perché non c'è scambio visibile. In effetti non è un accordo di scambio classico; ma questo poteva essere soltanto un accordo definitivo. Cosa che non pretende essere quel Protocollo. Troverei più giusto che il giudizio riguardasse la sostanza del problema: quell'accordo tiene aperta o no la porta per una più compiuta politica dei redditi e per un nuovo assetto contrattuale? A mio avviso, naturalmente sì ed anche con buone chances di successo. Infatti, non abbiamo «sprecato» ora l'arma dell'intervento legislativo ed abbiamo imposto che tutto si tiene, anche se, forse in modo ancora insufficiente: prezzi, tariffe, salario, fisco. Non si riparte, dunque, dal nulla, ma neanche da quanto già detto e visto. Fuori del sindacato, c'è stata la proposta di Craxi di un patto di medio periodo imperniato su una «tregua» nella rincorsa salari-prezzi-tariffe. Gli ha fatto eco Trentin con BibliotecaGino Bianco
ic).tt BIANCO '-X-ILROSSO Mii•liiill un più congiunturale blocco per 6 mesi di prezzi, tariffe e salari. Non si tratta della stessa cosa. Quella di Trentin è una classica ipotesi di terapia d'urto. Nei giorni precedenti il 10 dicembre, anch'io per conto della Cisl, sostenni che sarebbe stata la soluzione migliore. Ma lo sarebbe stata per questi primi sei mesi dell'anno, nei quali l'effetto elezioni e quello della finanziaria sugli enti locali (che puntualmente sono ricorsi a massicci incrementi di tariffe e prezzi amministrati) potevano tirare un brutto scherzo alla voglia di contenere l'inflazione. Non ci furono riscontri positivi né da parte del governo, né della Cgil e Uil. Resto convinto che si è persa un'occasione, perché riproporre il blocco per i secondi sei mesi dell'anno - al di là del valore politico indiscutibile, specie se proviene da una Cgil così tormentata - ha poco senso; quel che è fatto è fatto, sperando che i vincoli dell'accordo del 10dicembre siano sufficienti a piegare le spinte inflattive. Ciò che serve è qualcosa di più lungo respiro e di più ampia portata. Un vero e proprio «patto per il lavoro e la competitività» del sistema che riguardi almeno il 1992 e il 1993, per quanto attiene l'occupazione e la politica dei redditi, e delinei il nuovo sistema contrattuale. Circa il primo aspetto i capisaldi sono: - l'attuazione di una politica attiva del lavoro imperniata sul governo tripartito della formazione professionale, dei contratti di formazione-lavoro e della mobilità dei lavoratori, in modo tale da arricchire la strumentazione_classica: Cigs, prepensionamenti, ripartizione del tempo di lavoro; - il sostegno di alcuni settori strategici (informatica, elettronica, auto, chimica, tessile) nelle politiche di alleanze internazionali; nella ricerca, nel decentramento verso il Sud; - l'irrobustimento della piccola e media impresa attraverso l'applicazione della legge 317, e dell'imprenditorialità giovanile e di selettive misure di riduzione del costo del danaro e dell'energia. Circa la politica dei redditi, i capisaldi sono rappresentati: - dall'istituzionalizzazione di una sede di discussione annua della politica dei redditi; - da una politica di controllo dei prezzi liberi, in modo da penalizzare fiscalmente quei settori che vanno al di là dell'inflazione programmata; - da una politica delle tariffe nazionali e locali, impostata sul criterio dei «price-cup» e cioé di una correlazione stretta tra la loro crescita e i piaBibliotecaGino Bianco 6 nidi miglioramento della qualità e dell'efficienza dei servizi erogati; - da una politica di predeterminazione dei salari sull'inflazione programmata con conguagli, rispetto all'inflazione reale, attraverso sgravi fiscali; - da misure concrete e credibili a tutela delle famiglie numerose e monoreddito sul modello francese (una famiglia con 4 componenti e un solo reddito è esentasse, entro un massimale convenuto); - da una riforma definitiva e completa del sistema pensionistico. Quanto al modello contrattuale, da introdurre dopo questo biennio, si tratta di fare una scelta non congiunturale, che interloquisca con il meglio del contrattualismo europeo e rappresenti un saldo ancoraggio tra aree forti del lavoro dipendente ed aree deboli. Per rispondere a queste esigenze, non si può fare il «restyling» al modello contrattuale vigente. È troppo condizionato dall'automatismo della scala mobile, non consente la necessaria trasparenza tra le dinamiche contrattuali delle aree deboli e quelle delle aree forti, è ancora a mezza strada tra una tradizionale caratterizzazione conflittuale e una più innovativa identità partecipativa. Bisogna fare scelte precise per essere credibili e prospettare una fase lunga (non so se simile a quella del contrattualismo tradizionale) di relazioni sindacali da «seconda generazione». Se quest'imperativo ha senso, la rivisitazione della piattaforma unitaria definita una anno fa, diviene inevitabile. La prima scelta è quella di spostare il bari~ centro delle relazioni sindacali sulla contrattazione. Questo implica che essa divenga più certa, più esigibile e meglio qualificata. Acquisendo queste caratteristiche, si può ragionevolmente ritenere che la funzione della scala mobile può essere superata e sostituita da una sorta di Smig (salario minimo interprofessionale garantito), indicizzato al 100%. La sua caratteristica fondamentale sarebbe di tutelare quelle aree di lavoro così precarie e marginali da non essere protette da alcun contratto. Ma potrebbe diventare anche misura per la creazione di un «Reddito minimo vitale» sostitutivo delle tante forme di integrazioni reddituali o di remunerazioni minime che costellano il nostro sistema di Welfare State (pensioni minime, assegni per lavori socialmente utili, contributi vari ...). Lo scambio, dunque, è tra meno salario automa-
.{).lt BIANCO lXILROSSO Miii•i•lil tico e più contrattazione certa. Questa certezza è a sua volta legata ad una seconda scelta. Si tratta di optare definitivamente per la partecipazione, soprattutto per la contrattazione decentrata. Se è vero che nel futuro, sarà sempre di più rilevante la qualità (dei prodotti, dei servizi privati e pubblici, del modo di lavorare, delle tecniche progettative), è anche vero che occorrerà un crescente consenso collettivo agli obiettivi di impresa, di ente o di amministrazione e quindi è necessario uno spazio contrattuale da gestire. Il modo di gestirlo è rilevante. Va scelto consapevolmente quello partecipativo e quindi ogni contenuto (dal salario, all'ecologia) va inquadrato non in una logica da rapporti di forza ma in una visione di obiettività possibile. Un'opzione così formulata, fa perdere alla contrattazione decentrata quella tradizionale funzione di autonomia se non di arbitrarietà, che ha reso sempre complicato il rapporto tra sindacalismo confederale e rappresentanze di base, ogni qual volta il primo tentasse di far valere visioni non aziendalistiche della realtà da gestire. 6. La terza scelta riguarda la trasparenza delle dinamiche contrattuali e attiene alla funzione della contrattazione nazionale. Nel mondo, le esperienze più limpide, anche se diverse tra loro, sono le «campagne di primavera» che in Giappone investono le aziende annualmente e la contrattazione annua del salario alla tedesca. Essemettono plaBibliotecaGino Bianco 7 sticamente a confronto (e in tempo reale) le richieste tra le varie aziende (Giappone) o tra le varie categorie (Germania) e quindi deboli e forti si possono in qualche modo spalleggiare, verificare, controllare. Nella cultura contrattuale italiana questo sistema è certamente innovativo, dato che introdurrebbe il criterio dell'autonomia degli istituti contrattuali rispetto al suo contenitore, il contratto di categoria. Ma, come ricorda spesso Giugni, forse è superato il tempo per cui tutti gli istituti contrattuali hanno una scadenza unica, quella della vigenza contrattuale. È evidente che questa scelta, per le caratteristiche di pluralismo sindacale e delle controparti, proprie del nostro paese imporrebbe una qualche forma di «dovere all'accordo» che limiti l'autonomia delle parti, se si vuole un negoziato sul salario annuo, in un arco di tempo breve. In alternativa, c'è la riconferma del contratto poliennale tradizionale, con l'accortezza di definire una tutela automatica minima tra un rinnovo e l'altro, per assicurare alle aree deboli una protezione garantita. Ovviamente, in questa ipotesi le ragioni della traparenza sarebbero più affievolite. Come si può notare, la carne al fuoco resta tanta. Ci si può chiedere qual è il tasso di fattibilità. Guardando agli attori, si può dire che molto dipende dalla coesione del sindacalismo confederale.
.P.lLBIANCO \XILR~ Miiilil•il Infatti, il dibattito interno alla Confindustria sulla scelta del successore di Pininfarina, concentrandosi in una prima fase su Romiti, dimostra che prevale tra gli industriali l'idea di una confederazione autorevole e fortemente rappresentativa. Evidentemente, l'aspettativa è per una Confindustria che deve attrezzarsi per gestire questioni significative. Quanto al Governo, qualunque esso sia dopo le elezioni, non può bordeggiare i problemi; la situazione oggettiva della fase economica, lo stato in cui si trova il bilancio pubblico e gli impegni europei lo obbligheranno a proposte di un certo spessore. Paradossalmente, dipende molto dal sindacalismo confederale e cioé se si farà portatore unitario di un'ipotesi di grande valenza strategica o se, soprattutto per difficoltà a dare un taglio al continuismo, si presenterà con un cesto di proposte modeste. Come Cisl, per le proposte già avanzate, optiamo per la prima caratterizzazione. Si intravvedono difficoltà e ostacoli che non fanno prevedere con certezza che anche le altre Confederazioni siano intenzionate a fare la stessa opzione. Soprattutto dalla Cgil giungono messaggi contradditori, come quello di aprire vertenze giudiziarie sul pagamento dello scatto di contingenza di maggio. Ma l'attitudine a ricercare non una mediazione qualsiasi, ma quella che ci faccia presentare tra i lavoratori prima e le controparti dopo come i portatori di un disegno riformatore ed innovatore delle relazioni sindacali, non può che essere totale e ben predisposta. In fondo, la parentesi pre-elettorale potrebbe essere utile per confezionare una proposta che dia al sindacalismo confederale una prospettiva di protagonismo autonomo e condiviso dai lavoratori. Dicendo questo, non voglio dare affatto l'impressione che bisogna scrivere per forza pagine indimenticabili per la storia. Vorrei però che il sindacalismo confederale non fosse coinvolto nella cronaca più banale di una società senza più il gusto di pensare ed agire in grande. Salute.Unagiustiziaelementare: il medicochesbagliapagherà di Teresa Petrangolini bbiamo letto con un certo stupore la levata di scudi delle organizzazioni mediche a se- A guito della sentenza della Corte di cassazione sulla responsabilità professionale dei medici nel caso del decesso per tetano di Elena Lombardi. Si sono usate parole grosse: caccia alle streghe, sfiducia nella professione medica, penalizzazione degli interventi chirurgici all'avanguardia. I giornali hanno dato largo spazio a queste dichiarazioni, mentre nessuno si è preoccupato di andare a vedere di che cosa parlava esattamente la sentenza. In questo modo si è fatta un'opera di disinformazione e non si è capito che la sentenza non chiedeva ai medici di fare miracoli, ma semplicemente l'esercizio della professione nel quadro del principio della responsabiliBibliotecaGinoBianco 8 tà e a tutela del diritto alla salute. Andiamo quindi a vedere qual è il fatto. La Corte di cassazione ha confermato la condanna di un medico che non si era accorto che la sua paziente, la quale avevadato alla luce un figlio con il parto cesareo in una clinica napoletana, aveva contratto il tetano. La donna è poi morta all'ospedale Cardarelli, dove è arrivata quando ormai la situazione era disperata. La sentenza dice che, se si fosse intervenuti in tempo, ci sarebbe stato almeno il 30% delle possibilità di salvarla. È necessario innanzitutto dire che la Corte di cassazione sostiene questa linea interpretativa per lo meno da] 1983, anno in cui è stata confermata una sentenza di condanna a seguito della morte, dopo un incidente sul lavoro, di un giovane ope-
.{).IL BIANCO l.XILROSSO iliiilil•d raia, malamente soccorso da due medici che perdipiù avevanoomesso il ricovero e gli accertamenti del caso. Quindi non c'è nulla di nuovo, ma semmai una coerenza che andrebbe lodata, perché rivolta non a colpevolizzare la classe medica, ma a verificare il compimento di precisi doveri professionali. In secondo luogo, la sentenza si basa sul principio della probabilità e sulla base di questa sostiene che, se si fosse intervenuti tempestivamente e in modo corretto, in quel caso e solo in quel caso, la signora Lombardi avrebbe avuto quel 30% di probabilità di salvarsi. Si parla quindi non già della certezza, ma «di serie e apprezzabili possibilità di successo». Invece i sanitari, nonostante evidenti e lampanti prove contrarie, hanno diagnosticato una «nevrosipost partum» e somministratoun calmante. Solo dopo la insistenza dei parenti e dopo aver visto che le cose si mettevano male, hanno visitato approfonditamente la paziente e si sono accorti, ormai troppo tardi, dell'infezione. Inoltre è importante chiarire che la sentenza ha per oggetto la individuazione di comportamenti omissivi e non la revisione delle regole dell'attività medica. Infatti non si mette in discussione la capacità professionale dei medici, né si afferma che il medico sia tenuto a garantire il risultato. Si pone solo in risalto la necessità dj evitare morti o lesioni gravi legate a negligenza e disattenzione. In sostanza nessuno se la sentirebbe a cuor leggero di mandare davanti al giudice un medico che ha profuso fino in fondo il suo impegno per salvare una vita umana, anche rischiando e magari fallendo nei suoi sforzi. Ciò che è in,accettabile,e che BibliotecaGino Bianco 9 la sentenza giustamente condanna, è la scarsa cura e la disattenzione che caratterizzano i comportamenti di una parte della classe medica. È infatti esperienza quotidiana del Tribunale per i diritti del malato trovarsi di fronte a casi il cui esito negativo è stato quantomeno favorito dalla poca considerazione da parte dei sanitari delle informazioni fornite da parenti o da altri medici sulle condizioni del malato, dall'arrogante presupposizione delle proprie capacità tecniche, dallo scarico di responsabilità, dalla poca attenzione al fattore tempo, dall'incuria (nel caso in esame il filo di sutura per il taglio cesareo era stato raccattato da terra!). Per capire come stanno le cose è però necessario descrivere sommariamente il contesto in cui si collocano questi tipi di fatti. Se è infatti vero che la percentuale di violazioni gravi dei diritti dei cittadini, di violazioni che comportino cioé un danno permanente, all'interno delle strutture sanitarie è meno alta di quella relativa a fatti lievi (informazioni, igiene, ecc.), è comunque significativo che solo una esigua minoranza di episodi di questo tipo arrivi davanti all'autorità giudiziaria. I dati del Rapporto sullo stato dei diritti dei cittadini nel Ssn, realizzato dal Movimento federativo democratico in collaborazione con il Ministro della sanità e il Consiglio sanitario nazionale, parlano chiaro: ben il 90% dei casi in cui ci sarebbe materia perlomeno per un intervento della giustizia amministrativa o per il risarcimento di un danno, non vengono direttamente denunciati alle autorità competenti, probabilmente per la scarsa fiducia dei cittadini nella nostra giustizia, ma vengono portati a conoscenza di altri soggetti, come ad
~-lLBIANCO lXltROSSO iliiili•id esempio altri operatori sanitari o lo stesso Tribunale, perché si provveda in qualche modo a riparare il torto. C'è quindi da pensare che le situazioni affrontate dalla sentenza siano molto più diffuse di quello che si crede, anche se è necessario sottolineare, sempre a detta del Rapporto, che i cittadini in genere hanno un'alta considerazione delle qualità tecniche e della professionalità dei medici. Questi dati mettono in luce il fatto che, a differenza di quanto hanno affermato i rappresentanti dei medici nei giornali, non esistono preconcetti o manifestazioni di sfiducia nei confronti del loro ruolo. Anzi sono molti i casi in cui il cittadino magari denuncia quanto gli è accaduto, perché la pubblicità della sua situazione serva ad evitare che gli stessi episodi si ripetano per altri, ma poi rinuncia ad andare avanti, anche perché poco interessato alla punizione del colpevole. Se usa la magistratura, significa veramente che si è superato il segno! In conclusione: non c'è motivoda parte dei medici di scaldarsi tanto e di urlare allo scandalo. Sarebbe più utile per loro innanzitutto leggersi con attenzione la sentenza senza parlare per sentito dire, e poi prendere sul serio e con senso di responsabilità la propria professione, perché i cittadini chiedono ai medici solamente di compiere con coscienza il proprio dovere. Case:lo Statovende? Nonsiaunamanovraperi furbi di Carlo Pignocco i fa un gran parlare, in queste settimane, della S norma - introdotta in una delle leggi di accompagnamento alla Finanziaria '92 - che prevede la possibilità di vendita degh alloggi diedilizia pubblica di proprietà di Iacp, Comuni, demanio statale. Da un lato si può osservare che questa misura consente agli enti gestori di ricavare risorse che possono essere positivamente destinate alla produzione di nuovi alloggi o a programmi di manutenzione di quelli esistenti; e che viene incontro alla richiesta, diffusa, di riscatto da parte degli assegnatari. Ma all'opposto, non si può fare a meno di rilevare la mancanza di un programma organico e strategico per la riqualificazione e l'estensione del patrimonio pubblico e per la riforma degli enti gestori; programma all'interno del quale, correttamente, si protrebbe inserire l'ipotesi di cessione - limitata, definita, ben regolata - di quote del patrimonio. E l'assenza di questo disegno strategico ci fa dire che la vendita rappresenta una misura parziale disorganica, miope. BibliotecaGino Bianco 10 Ma c'è di più: il patrimonio di edilizia pubblica in Italia è già ai livelli europei mentre, per tragica e non causale contraddizione, la tensione abitativa e le distorsioni di un mercato non adeguatamente controllato sono fortissime. Infine, gli alloggi pubblici sono stati finanziati in misura maggioritaria dai lavoratori dipendenti attraverso al contribuzione ex Gescal: un contributo di solidarietà che può essere giustificato solo se serve a soddisfare un bisogno primario, la casa, per quei soggetti che non possono accedere al mercato privato. Si possono quindi, legittimamente, porre alcuni interrogativi: è saggio ridurre un patrimonio pubblico già così esiguo? È giusto favorire alcuni privilegiati - coloro che potranno acquistare - a danno di centinaia di migliaia di famiglie che richiedono un alloggio; e per di più utilizzando la solidarietà del lavoro dipendente? È accettabile prevedere che le legittime aspirazioni degli assegnatari di acquisire la proprietà dell'alloggio siano «pagate» con l'aggravarsi della condizione economica e abitativa, con il trau-
,P.ILBIANCO l.XILROSW ilililii•II ma della «deportazione», il trasferimento forzato di chi non acquista? Ma questo provvedimento impone alcune riflessioni di fondo, relativamente alle strategie e agli obiettivi della politica abitativa nel nostro Paese. Questa politica, nel tempo ha proceduto su un doppio binario: da un lato sono stati previsti programmi per estendere l'offerta di alloggi pubblici in affitto e per controllare, anche se non adeguatamente, i rapporti di locazione nel mercato privato per rispondere alla domanda più debole. Dal!'altro, ingenti risorse dirette e indirette sono state destinate a favorire la proprietà degli alloggi: così la legge istitutivadella Gescal, nel 1963, ha svenduto a prezzi irrisori l'ingente patrimonio realizzato in 14 anni dall'Ina-Casa; nel 1960, per decreto, sono stati liquidati gli alloggi dello Stato, quelli dell'Incis e di altri enti; per decenni si è offerta l'esenzione delle tasse per 25 anni agli alloggi di nuova costruzione. Ma qual'è il risultato di questa politica? Oggi la gran parte delle famiglie è proprietaria di un alloggio; ma gli altri? Per il 30% delle famiglie italiane non c'è tetto, né legge: non un'edilizia pubblica diffusa, efficace, funzionante, in grado di soddisfare i bisogni abitativi dei redditi bassi; non un controllo sull'edilizia privata in grado di garantire rapporti locativi equi e una ragionaBibliotecaGino Bianco 11 vole stabilità alloggiativa per la generalità delle famiglie. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: la società dei 2/3 è emblematicamente rappresentata all'interno del problema casa: chi accede al mercato, conquista la posizione di proprietario - magari con sforzi e sacrifici notevoli - è garantito; chi resta fuori, è senza diritti. E non deve sembrare una semplificazione eccessiva; è senza diritti l'inquilino privato, minacciato dalla finita locazione, sottoposto ai ricatti dei canoni neri. E non è una garanzia il rinvio ricorrente della esecuzione dello sfratto: la spada di Damocle continua a pendere sulla sua testa. È senza diritti l'inquilino pubblico: con affitti ragionevolmente bassi, è però abbandonato in alloggi spesso costruiti male, sempre senza manutenzione in quartieri degradati e senza qualità. E, oggi, minacciato di mobilità forzata per consentire ad altri, più favoriti, di acquisire la proprietà. Fino a che l'intervento pubblico, le norme e le risorse destinate al comparto privilegeranno di fatto il sostegno del mercato immobiliare e l'obiettivo «tutti proprietari» - obiettivo che discrimina i più deboli, perché non sono compresi nei «tutti» - la politica abitativa pubblica non realizzerà il diritto alla casa, ma perpetuerà ingiustizie e discriminazioni.
- I - ~.lL BIANCO lXILROS.SO Mililil•d Privatizzairseervizi? Sì, maconregole tutele di Carlo Mitra servizi, siano essi rivolti ai beni che alle persone, sono la nuova frontiera della crescita economica e sociale delle società sviluppate, di quella italiana in particolare. I servizi, tradizionalmente considerati attività marginale dei processi produttivi e dell'economia, divengono sempre più attività strategiche. Siamo in piena transizione verso la società dei «servizie della qualità»: il raggiungimento di questo obiettivo definirà per il futuro il grado di forza e di sviluppo del nostro Paese. In Italia lo sviluppo dei processi dovrebbe essere più marcato che altrove per le caratteristiche strutturali proprie, che evidenziano un doppio fenomeno: da una parte la relativa arretratezza del livello di terziarizzazione rispetto a Paesi di pari livello di sviluppo, dall'altra una sproporzionata presenza della Pubblica Amministrazione nella erogazione diretta di servizi. Fatto questo che non trova eguali in altri Paesi ad economia libera e sviluppata. L'insiemedi questi dati ci indica che pur tra grandi difficoltàe contraddizioni, in tale comparto avverranno grandi cambiamenti. Di queste problematiche vorrei affrontare in modo più specifico il versante de-pubblicizzazione di molti servizi attualmente resi dalla Pubblica Amministrazione. C'è convinzione diffusa della necessità, non più rinviabile, di riorganizzare a fondo una spesa pubblica che non è più in grado di reggere la logica della sommatoria di risposte ai bisogni di oggi, conservando tutto ciò che nella storia si è consolidato e stratificato. Si propongono sempre nuove esigenze e quindi necessità di priorità, cresce in modo esplosivo la domanda di qualità dei servizi resi, si accentua il bisogno di riscontrare una diversa resa economica degli stessi. Tali nodi non sono risolvibili nell'ambito della 12 gestione diretta da parte del Pubblico; solo il passaggio alla gestione in forma privata, può modificare una situazione fortemente compromessa. I.:operazione,obbligata per certi versi, comporta però anche molti rischi ai quali dovrebbe essere dedicata più attenzione politica e culturale di quanto non stia facendo. Non è indifferente il come tale processo avverrà, non è la stessa cosa se sarà de-pubblicizzazione o privatizzazione. Non si tratta solo di terminologia; non tutto è privatizzabile e soprattutto occorre tenacemente salvaguardare la titolarità, il governo e il controllo «pubblico» dei servizi separando programmazione, governo e controllo dalla gestione all'erogazione. È preoccupante come sull'onda del «privatizziamo» si proceda senza adeguate linee politiche esplicite circa la conservazione dei fondamenti essenziali della nostra esperienza di welfare e di pluralismo. Così come altrettanto preoccupante è come tutto ciò avvenga senza una forte presenza progettuale del sindacato che oscilla tra perdenti atteggiamenti corporativi (teniamo tutto dentro) e l'assistere quasi con indifferenza ad un processo progressivo di passaggio di forti fasce di mercato dal pubblico al privato. Il problema dei servizi resi con certezza e con standard di efficienza e qualità è una delle attese più forti dei cittadini. Affrontare con senso strategico grandi progetti di depubblicizzazione dei servizi è una scelta che la politica e gli amministratori pubblici devono compiere con coerenza e a breve. Dopo tanto parlare di depubblicizzazione, bisogna dire che, ad oggi, di strada non se ne è fatta molta. E quei pochi tentativi messi in atto hanno evidenziato quante siano le complessità, le difficoltà. Il nocciolo duro si ritrova in una resistenza BibliotecaGino Bianco
.P..IL BIANCO lXILROS.SO Mii•li••d di fatto a veri processi di depubblicizzazione e ciò da parte di soggetti diversi che traggono dalla situazione in atto «potere e privilegio» diversamente non riscontrabili. È questa una situazione delicata e rischiosa che mette in causa seriamente lo sviluppo dei processi e là, dove per causa di forza maggiore si arriva ad avviarli ciò avviene molto all'italiana, con gravi implicazioni negative circa il costo e la quantità delle erogazioni future. È una partita molto difficilee delicata, e purtroppo non riscontriamo una mobilitazione politica e culturale quale sarebbe necessaria per far progredire adeguatamente il problema. In generale alle resistenze dei soggetti che stanno dentro al sistema, corrispondono quelle di soggetti imprenditoriali che si alimentano proprio di una organizzazione parcellizzata degli appalti e delle forniture. Un vero e proprio sistema perverso e dequalificato che si definisce su una alleanza di basso profilo in contrapposizione ad una risposta, non più rinviabile, di forte innalzamento degli standard di qualità dei servizi e il contestuale abbattimento del costo di erogazione. La insoddisfazione (eufemismo) degli utenti per il pessimo livello di erogazione dei servizi è arrivata al punto di rottura, così come è ben oltre il punto di rottura l'insostenibilità dei costi di erogazione, a maggior ragione se rapportata al livello di qualità attuale. I due problemi sono affrontabili positivamente, ma lo sono solo con progetti di privatizzazione molto chiari, progetti che prevedano una forte riorganizzazione dell'erogazione e l'adozione di capitolati con standard di qualità certificati e controllati. Solo forti operatori, tra i quali il movimento cooperativo, possono favorire questo processo, Sl!perando la logica degli appalti parcellizzati e al massimo ribasso, una logica che finisce per penalizzare il sistema produttivo sano e favorire «l'aria spuria», in una alleanza perversa che assicura l'impunità di fronte a prestazioni e conseguenti erogazioni con livelli di qualità indegni di un Paese sviluppato e civile qual è il nostro. Siamo di fronte ad un grosso fatto che avrà in ogni caso grandi implicazioni sulla Società e sulla struttura del potere. Auguriamoci che l'attenzione delle forze progressiste sia veramente adeguata alla partita in gioco. Perché lo sia c'è un forte e urgente recupero da operare. ' . :' .,. . ·:- .:___ . . '°\' ~ //,'~_ =··· "~~>àw:e\ . . • . . . • " ..... ' - -· • ··•.- ....t"' ·• 13 BibliotecaGino Bianco
~JLBIANCO lXILROSSO Kililiiid Pepponneon c'è più. EdonCamillanoncambia(?IV 0 ) Un lungo percorso, quello fatto finora, in questa rivisitazione della storia e delle motivazioni dell'impegno politico dei cattolici italiani, che ha preso origine a fine '91 dalla riproposizione, da parte della Cei, della cosiddetta «unità politica» dei cattolici italiani. C'era, nel richiamo del cardinale Ruini, neo presidente della Cei, un evidente riferimento alle elezioni politiche, che allora apparivano probabili, e che ora, mentre scrivo queste note sul tema, alla quarta e conclusiva puntata, sono imminenti al punto tale che forse il lettore si troverà di fronte a queste righe già ad elezioni avvenute, e risultati conosciuti. Poco male. Il ritornello del dovere di non disperdersi nella pratica e nella testimonianza dei valori cristiani ed umani che costituiscono la base della identità cristiana e cattolica, immiserito ad appello elettoralistico per un partito solo, che nelle sue vicende ha incarnato il meglio, in parte, ma anche il peggio delle vicende italiane, è un segno del ritardo in cui come cattolici italiani, anche in questo campo, ci troviamo a vivere. Ho già ribadito che nessuna legge vigente impedisce ai vescovi italiani, e a tutti i membri del clero e della comunità ecclesiale come tale, di pronunciarsi anche politicamente ed elettoralmente. Ogni pretesa laicista di far tacere gli uomini di Chiesa è errata e controproducente. E tuttavia la storia di questi 45 anni di politica post-bellica non ha solo dimostrato che anche grazie allapresenza dei cattolici e della Chiesa sono stati risparmiati all'Italia lutti e sventure che hanno toccato altri popoli europei. grazie alla vittoria del comunismo ateo e totalitario, ma anche, e questo diventa dirimente al giorno d'oggi, che l'identificazione della Chiesa e dei cattolici con un solopartito e con il suo sistema di potere, ha allontanato tanta gente dall'ascolto del Vangelo, ed ha contribuito a impoverire tanti delle ricchezze pur contenute nel patrimonio cristiano. Perciò, dopo aver trattatole origini della storia dell'impegno politico dei cattolici, dagli inizi del secolo (n.23), dopo aver esaminato i cambiamenti dottrinali che si sono succeduti nella Chiesa cattolica, e queli epocali verificatisi nel mondo intero, con la fine delle ideologie totalitarie, e aver annotato le vicende ondeggianti degli atteggiamenti del mondo cattolico nei confronti del tema dell'unità politica, con il sorgere di una specie di «nuovo collateralismo» (n. 24), e dopo aver visto quali grandi cambiamenti, inderogabili, debbono intervenire nei partiti non Dc, posto che essi vogliano conquistarsi anche il consenso di quei cittadini italiani che sono davvero cattolici, e tali vogliono restare, pur rifiutando per tante ragioni storiche e morali la scelta democristiana (n. 25), in questa ultima riflessione mi pare il caso di riflettere conclusivamente sugli effetti che la scelta obbligata della Dc ha prodotto anche nella Chiesa cattolica e sul problema della «questione morale» che il rapporto concreto tra coscienza cristiana e politica deve necessaria mente affrontare. (G.G.) 14 BibliotecaGinoBianco
_p_JLBIANCO l.XILROSSO Miliiliiid Chiesaitalianae unitàpolitica nellaDc:chipaga? di Giovanni Gennari o scelto un titolo provocatorio, per questo ul- H timo pezzo sul rapporto tra cattolici, - Chiesa, associazioni, movimenti, singoli credenti, ecc. -, e politica in Italia. La provocazione, contenuta nella domanda, e nel modo rude in cui è formulata, può intendersi più pacatamente così: quali sono i costi che la Chiesa italiana, la comunità ecclesiale nel suo complesso, ha pagato con il suo stringersi attorno alla Dc fino alla identificazione con essa, nel passato, e quali sono i vantaggi che ne ha ottenuto? Domanda complessa, cui deve andare una risposta complessa, sia per ragioni di tempi diversi, dato il fatto che la risposta stessa deve prendere in considerazione quasi 50 anni di storia, che per ragioni di contenuti diversi, perché si deve parlare di costi e vantaggi nei diversi ambiti, materiali e spirituali, di denaro e di rispetto, di potere e di credibilità, di energie e di uomini, di testimonianza e di discredito ... C'è, innegabile, una provocatorietà oggettiva, nel tema. In termini di dare ed avere in denaro, in potere, in privilegi, il discorso viene spesso evidenziato dall'opinione pubblica, con toni di critica dura. E'infatti continuo, almeno su certi giornali e settimanali, lo «scandalo» per il potere della Chiesa e dei preti, per le ricchezze ecclesiastiche, per i vantaggi molto mondani che verrebbero, al potere ecclesiastico in Italia, dalla sua identificazione politico partitica con la Dc. Non discuto, qui, sulle vere ragioni dello «scandalo», sul fatto che spesso si tratta di rivalità pura per il possesso degli stessi beni che si criticano, sul riconoscimento indiretto alle ragioni evangeliche di purezza e distacco che viene dalle critiche stesse di chi dice di non prendere sul serio il Vangelo...Constato. Un solo esempio, recentissimo e duro, che è una sola goccia esplicita nel mare per lo più implicito, ma pesante. BibliotecaGino Bianco 15 Su «Panorama» (8/3/92) un servizio di 4 pagine ha un titolo chiaro: «Grandi manovre: lo scambio Dc-vescovi. Voto a rendere». In pratica si sostiene, appoggiando la tesi su una casistica di fatti elencati, che la Chiesa italiana appoggi la Dc per un calcolo molto terreno, di potere e di denaro, per garantirsi privilegi vecchi e nuovi per assicurarsi «soldi per le scuole religiose», leggi in aiuto alla concezione cattolica della famiglia, tutela del patrimonio immobiliare ed artistico, garanzia che il Concordato del 1984sia interpretato secondo gli interessi ecclesiastici, e cose simili. Il discorso è brutale, certo, ma sono brutali anche le parole che suonano, tra virgolette, in bocca a qualche potente Dc come Sandro Fontana, direttore del quotidiano ufficiale della Dc: «LaChiesa ha bisogno di una Dc forte, oggi più che mai». E in questo contesto le parole, che suonano certamente maligne, di qualche laico eccellente, come il prof. Francesco Margiotta Broglio, sono una semplice conseguenza di ciò che sembra chiaro: «Solo enfatizzando il proprio ruolo i vescovi possono riscuotere i crediti dopo le elezioni». Non sarà così, nell'intenzione dei vescovi, e io non ne dubito, ma è un fatto che c'è tanta gente, e non solo intellettuali e politici, che pensano che in fondo la raccomandazione più insistente che mai dell'unità politica dei cattolici, anche in questa occasione elettorale, che vuol dire inequivocabilmente la raccomandazione del voto Dc, si spieghi fondamentalmente con questo meccanismo greve di dare ed avere: altro che principi, e altro che valori! Il sottotitolodi «Panorama» è insultante: «LaGei prepara il conto». Non è questo il discorso che svolgerò nelle righe seguenti, ma lo dovevo segnalare, perché va considerato seriamente, se si hanno a cuore le sorti della Chiesa italiana e della sua credibilità, il fatto che questo discorso è reale, è fatto, è diffuso tra la gente, corre su tante bocche, trapela da tante
,PJJ.BIANCO l.XILROS.SO ilii•li••il pagine di giornale e da tante trasmissioni radiotelevisive... Si può concludere, certo, che non occorre farsi distrarre da esso, che vale la pena di pagare questo prezzo, che è solo parto di cattive intenzioni e di malafede di principio ...Certo, ma non si può fare a meno di ricordare che c'è. E si può aggiungere che sussiste qualche dubbio circa il fatto che in ultima analisi, - che per la Chiesa deve essere di testimonianza e di credibilità, di senso pastorale e di evangelizzazione -, il gioco non renda più. Se a pagare, in fin dei conti, sarà il senso più profondo della stessa missione della Chiesa in Italia, occorrerà dire che almeno il dubbio, sulla utilità, sulla giustezza, sulla equivocità della cosa dovrebbe venire a tanti, e non solo a chi scrive, ai soliti «contestatori», agli scontenti di professione, ai tanti «rompiscatole» del passato e del presente. Dividerò il discorso, sommariamente, in due parti. Nella prima guarderò brevemente al passato, e nella seconda al presente. La conclusione riguarda l'oggi, e il futuro. Politicamente parlando, ed è l'ultima annotazione di questa introduzione, questo è un discorso «al buio»: quando si leggeranno queste righe probabilmente, visti'i tempi delle Poste italiane, i numeri del 5 aprile saranno già noti, e si potrà ragionare anche in termini di immediata contabilità politico-partitica, che qui è del tutto fuori orizzonte. 1. Il passato: unità necessaria,poi discussa, mai rinnegata(1946-l990). Varrebbe la pena, per essere completi, annoverare tra i conti del passato anche quello lontano che uomini di Chiesa, con la loro scelta politica di vietare del tutto l'esercizio dei diritti politici ai cattolici, fecero pagare a quegli «sventurati» protagonisti del risveglio cattolico iniziale, in Italia, a cavallo di inizio secolo, con la politica del non expedit, prima, con le condanne poi della prima Democrazia Cristiana di Don Romolo Murri che giunsero fino alla scomunica e allo scioglimento, con l'ostilità verso Don Sturzo e il suo Partito Popolare, con la sconfessione di esso quando arrivò il nuovo padrone fascista, e così via, in pratica fino alla fine della II Guerra mondiale. È noto che l'approvazione piena della Dc di De Gasperi giunse solo dopo il '45, e si impose a fatica, prevalendo soprattutto come contraccolpo della tragedia antiumana e antireligiosa dei regimi coBibliotecaGino Bianco 16 munisti stalinisti degli anni '40 e '50. E' un fatto: il sostegno totale della Chiesa cattolica alla Dc di De Gasperi è stato uno degli elementi che ha salvato l'Italia e la sua democrazia dal rischio, imminente, di finire in braccio all'Urss e al comunismo. L'unità politica dei cattolici nella Dc, e la spinta a sconfessare la forze politiche di sinistra, fino alle sanzioni estreme della scomunica del luglio '49, furono lo strumento necessario per evitare la fine della democrazia italiana e della stessa nazione in senso proprio. Non tutto fu giusto, non tutto fu bello, non tutto fu corretto, ma era una vera guerra, uno scontro frontale, un conflitto assoluto, - non certo per volontà iniziale della Chiesa e dei cattolici-, e tutto ciò che seguì fu un prezzo pagato alla necessità della guerra stessa. Quando nel 1976Enrico Berlinguer, in un'intervista al «CorrieredellaSera», dichiarò che si sentiva più sicuro al di qua della Cortina di ferro, e che era lieto di essere difeso dalla Nato c'era, nelle sue parole, un riconoscimento a posteriori di una sconfitta politica, civile, umana e morale...Non fu una resa, certo, ma è stato l'inizio di una rivoluzione epocale. C'era strumentalità? Certo. Nella politica tutto ha un fine. Ma nella storia contano parole e fatti, e quelle parole hanno aperto la strada a i fatti che sono seguiti. Per quanto riguarda le parole, che in certi casi sono fatti veri, ci fu anche, da parte dello stesso Berlinguer, la rinuncia esplicita all'ateismo di partito e di stato, all'antiteismo di sistema e di propaganda ...La «Letteraal vescovoBettazzi»· ha pur contato qualcosa. L'eurocomunismo fu un inizio, piccolo e incerto, ambiguo e parziale, ma lo fu. Esso arrivava 23 anni dopo Berlino, 20 anni dopo Budapest, quasi 10 anni dopo Praga, certo, ma fu un inizio vero. Se non fossero arrivati poi un papa slavo, 1'80polacco, la «perestrojka» di Mikhail Gorbaciov, la caduta del Muro e il crollo dell'Impero con la fine del cosiddetto socialismo reale, probabilmente sarebbero rimaste solo intenzioni, e parole, ma il merito di averle espresse, e di averle dette è autentico. In Italia, insomma, l'evoluzione ideologica e politica della sinistra fu un fatto, e non fu ristretta al solo Pci. Subito dopo gli anni del frontismo i socialisti italiani capirono, fin dall'ottobre ungherese, quale era la verità dell'Est europeo, con trenta anni di anticipo sul Pci, e cambiarono profonda-
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