Il Bianco & il Rosso - anno III - n. 24 - gennaio 1992

turali che qualunque esperienza di democrazia economica dovrà affrontare. Le tre dimensioni che emergono principalmente sono la portata, l'importanza dei diritti proprietari, e le regole della partecipazione democratica. La prima - quella della portata - è stata sottolineata dallo stesso Meidner e da altri critici di sinistra che hanno messo l'accento sullo scarso peso dei fondi nel mercato dei capitali. Le risorse messe a disposizione dei fondi sono state all'incirca il 3% annuo dei titoli quotati alla borsa di Stoccolma. Molto meno anche dei capitali affluiti, non l'obiettivo di consolidare la previdenza pubblica, nel sistema dei fondi nazionali Atp (che sono dieci volte più grandi). Secondo questi critici le dimensioni quantitative dei cinque fondi regionali sono state troppo modeste per poter svolgere un ruolo significativo (nella redistribuzione del processo decisionale). E quindi anche se essi hanno svolto abbastanza bene le loro funzioni di intermediazione finanziaria non sono stati in grado di svolgere quelle di democratizzazione dell'economia, che erano alle radici del Piano Meidner. La portata limitata dei fondi è stata aggravata dall'accentuato processo di internazionalizzazione delle principali imprese. Cosi, per fare un esempio, possedere 1'1,75%delle azioni della Volvo- aziendasimbolo attiva sui mercati europei - è diventatoper i dipendenti svedesi un fattopoco più che simbolico. Cosi i fondi non hanno colpito nessuno in modo particolare (cosa che il governo socialdemocratico voleva d'altronde evitare), ma non hanno neanche avvantaggiato nessuno, soprattutto in termini di potere d'influenza. L'innovazione è stata troppo timida, ma le sue modalità (la proprietà collettiva) sono state tali da non conquistare il consenso né dei lavoratori (rimasti freddi sin dall'inizio), né degli imprenditori (che si sono radicalizzati su posizioni neo liberiste). La seconda dimensione importante è quellarelativa alla crucialità o meno dei dirittiproprietari ai fini di un processo decisionalepiù democratico. InMeidner è stato sin dal principio molto forte il legame tra formazione di «capitale collettivo»e redistribuzione della proprieBibliote a Gino Bianco .P-lLBIANCO lXILROS.SO l•U@iilil tà. E questo aspetto è stato molto innovativo nei confronti della tradizione socialdemocratica che aveva consapevolmente rimosso rivendicazioni sulle proprietà e sui poteri manageriali. Grazie a Meidner è stata riportata l'attenzione dei riformisti sulla correlazione esistente tra diritti proprietari e prerogative manageriali. Ma la strada scelta per affrontare il problema - quella della proprietà collettiva dei lavoratori - si è rivelata più ardua del previsto. La rottura di fatto della strategia di compromesso con gli imprenditori che aveva caratterizzato le socialdemocrazie (Walter Korpi l'aveva definito «compromesso storico») ha prodotto uno scontro frontale con la Saf (la Confindustria svedese), che alla lunga ha determinato più problemi, che non vantaggi per la sinistra. La diffusione della proprietà si è rivelata a sua volta una parola d'ordine troppo schematica per risultare efficace. Una migliore distribuzione dei diritti di proprietà va considerata come una condizione necessaria per la regolazione democratica dell'economia. Ma non è ancora una condizione sufficiente. Non è in gioco tanto la portata quantitativa, quanto la profondità di questo processo. Molta proprietà diffusa non vuol dire necessariamente potere più e meglio distribuito. Perché la proprietà va considerata come una delle risorse di potere in campo economico, e non la risorsa di potere in assoluto: altri fattori qualitativi (informazioni, capacità relazionali, tecniche ecc.) contano altrettanto e non sono «socializzati» automaticamente per il fatto di aver acquisito la proprietà azionaria. La terza dimensione che l'esperienza dei fondi ha lasciato irrisolta è quella della partecipazione democratica. Già nella fase di importazione, i fondi non avevano suscitato entusiasmo tra i lavoratori. La formula della proprietà collettiva si era risolta in un'astrazione intellettuale, piuttosto che possedere capacità mobilitanti. La loro gestione dopo 1'84ha confermato e incrementato gli scetticismi. Infatti, se è vero che si è trattato di una gestione economicamente inappuntabile, è anche vero che la sua opacità ha favorito l'indifferenza generale. Contrariamente a quello che avevano richiesto intellettuali prestigiosi come lo stesso Meidner e Korpi (che aveva ipotizzato fondi eletti dai cittadini), la preferenza per 33 la nomina governativa dei boards aveva accentuato gli aspetti burocratici e statali dell'esperienza realizzata rispetto a quelli sociali. Nei confronti dei lavoratori dipendenti titolari della proprietà collettiva non è stato adottato nessun meccanismo di coinvolgimento. Essi avevano diritto ad alcuni benefici differiti, di natura previdenziale, e a nessun beneficio diretto, neppure sotto il profilo della scelta e del controllo dei rappresentanti negli organismi di gestione (quindi molto meno della vituperata cogestione). È naturale quindi che ì fondi dei lavoratori siano affondati senza il rimpianto neppure dei loro protagonisti potenziali. Essihanno fallitoproprio sul terreno della democrazia. Perché non sono stati adeguati a far crescere l'identificazione anche individuale dei beneficiari. E la causa è tanto più grave se si considera che nello stesso periodo anche in Svezia hanno preso quota forme di share economy con un successo maggiore e una maggiore identificazione pratica da parte dei dipendenti delle aziende. Per quanto le esperienze di share economy abbiano anch'esse gravi limiti democratici, pure esse li compensano con legami e incentivi di altro tipo. Negli anni settanta i fondi collettivi sono stati il simbolo della partecipazione all'accumulazione e della democrazia economica in diversi paesi europei. Le contraddizioni in cui è incorsa la principale esperienza - quella svedese - che ne è derivata lasciano perplessi sulle sue potenzialità future. Da un lato sulla vitalità di uno strumento che alla prova dei fatti ha prodotto più delusioni che risultati tangibili. Da un altro lato sull'opportunità di mantenere l'identificazione tra fondi collettivi e democrazia economica, che anche in Italia conserva un forte potere d'attrazione, ma che appare quantomeno improbabile. L'identificazione della democrazia economica con macro fondi appare dunque troppo costrittiva. La partecipazione finanziaria può seguire strade incrementali e di medio raggio, più intonate a relazioni industriali non accentrate, e a sistemieconomici caratterizzati (è il caso dell'Italia) da significative regolazioni territoriali e da distretti di piccole unità produttive. La costruzione di nuovi investitori collettivi a livello territoriale potrebbe costituire una delle

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==